Il coraggio è un pezzo di carbone che decidi di inghiottire ogni giorno

Questa è l’essenza di “To the bone”, di Martin Noxon, uscito nel 2017. Il film guarda i disturbi alimentari da una prospettiva per alcuni tratti innovativa, fresca. Forse meno drammatica nella rappresentazione ma con l’immensa capacità di mantenere (senza rischiare di sminuire) l’intrinseca drammaticità della malattia stessa.

Ellen, la protagonista, è una ragazza di vent’anni che ha lasciato il college e che entra ed esce dalle cliniche senza nessun risultato. Tanto che per lei sembra quasi essere diventato un gioco. 

Parte di una famiglia altamente disfunzionale: il padre è completamente assente, la madre ha lasciato la famiglia per vivere la riscoperta omosessualità con una nuova compagna. Vive con una matrigna e una sorella che, seppur a loro modo, sembrano paradossalmente essere le uniche due ad interessarsi realmente della salute di Ellen. 

In un contesto in cui vediamo la protagonista decisa a non combattere ma anche a non lasciarsi davvero andare, costretta da sé stessa in una sorta di limbo in cui sfida la morte ogni giorno, Ellen decide di dare un’ultima possibilità ad un Dottore anticonvenzionale, contattato dalla matrigna come ultimo, disperato tentativo di salvezza.

È da questo momento che la ragazza comincerà a scoprire le relazioni autentiche, la vita per quello che è. Assistiamo alla distruzione di quelli che sono considerati gli stereotipi di questa malattia, non c’è la strumentalizzazione dei corpi ma al contrario vengono rappresentati in maniera critica. Non c’è spazio per vittimismi vestiti da rabbia e menefreghismo e ce ne accorgiamo nel dialogo fra il Dottore (immenso Keanu Reeves, con quell’umanità autentica e  mai davvero recitata) e la ragazza.

Ellen non viene assecondata, non viene compatita, ci rendiamo conto che non è questo il reale scopo della terapia come non è la risposta alla sua immensa fame d’amore. La risposta a tutto questo è, ancora una volta, vedere le cose per quello che sono, accettare la verità di quel che è stato e di quel che è per poter guardare il demone che si impossessa di corpi ormai quasi completamente inermi e sapergli dire: “Ora basta”.

Grazie al rapporto terapeutico e alla dolcezza delle relazioni umane create all’interno della casa di cura Ellen scopre che nessuno può difenderla da sé stessa. Che non può aspettare che qualcuno la salvi, deve avere il coraggio di fare una scelta ma può farlo solo lei.

Concetto che può sembrare banale, ma in un contesto in cui istintivamente verrebbe da assecondare il soggetto sofferente e affamato d’amore, scopriamo che il modo per cercare di rompere la catena è esattamente l’opposto: mostrare che privare sé stessi della vita in ogni sua forma, non punisce chi ti ha fatto del male né tantomeno instaura il rapporto che vorremmo o che ci saremmo aspettati. Quello che scatena è commiserazione, allontanamento, non accettazione. Un circolo vizioso da cui l’anoressico trae conferma di quello che ha sempre subito, perdendo ogni volontà di combattere perché “tanto fa tutto schifo”. 

L’ossessività tipica dell’anoressia è rappresentata solo in pochi passaggi, come quello in cui Ellen si tocca il braccio controllando di riuscire a chiuderci la mano intorno o ancora, sminuzzare il cibo per togliere le forme, esattamente quello che la persona anoressica vuole fare con il suo corpo.

Ecco, togliere le forma significa non accettare la propria femminilità (e sebbene nel film uno dei pazienti sia un maschio che si innamora di Ellen, l’anoressia resta una malattia che colpisce ancora per la maggior parte l’universo donna). 

Sappiamo che il cibo è innanzitutto relazione. E’ la prima forma di comunicazione fra noi e il mondo, il bambino comunica con la madre sotto la spinta della ricerca del nutrimento. Nel grembo materno infatti, il feto si trova in uno stato di totale dipendenza e si nutre attraverso una continuità fisica con la madre. Alla nascita la continuità fisica si interrompe ma il bambino si trova ancora in uno stato di totale dipendenza dalla madre. 

Ecco, il nutrimento permette al bambino di passare attraverso tutti i passaggi di crescita che dovrebbero portare al superamento della dipendenza e alla conseguente acquisizione dell’autonomia. 

Ma in contesti familiari completamente disfunzionali, in cui manca la comunicazione e le cose sembrano sfuggire dal proprio controllo, rendersi conto di poter controllare la fame dona ai soggetti a rischio lo scettro di un potere di cui non conoscono la reale pericolosità.

E’ facile comprendere come disturbi significativi del comportamento alimentare siano segnale di problemi arcaici e trovano le loro radici in età molto precoce. 

Una scena in particolare, rende evidente quanto fondamentale sia il rapporto con la madre. Lo scambio che la madre fornisce al bambino non è solo un nutrimento materiale ma emotivo, empatico, di accoglienza e di accudimento. Ecco che vediamo Ellen venire finalmente accettata dalla madre da cui si era sentita abbandonata. La donna infatti decide di nutrire Ellen con un biberon, cingendola a sé, come se la stesse allattando. Ecco, sarà questo il gesto che segnerà la svolta nella mente di Ellen. Prima cercando la morte, ma rendendosi poi conto, dopo una visione spaventosa, di non volerla. Di avere molto per cui vivere. 

Ancora una volta non si tratta di un film in cui assistiamo ad un processo di guarigione, anche perché sarebbe un lieto fine poco coerente rispetto alla scelta realistica su cui si basa tutta la pellicola. Ma vediamo Ellen pronta a volerci provare, mostra in tutta la sua durezza il reale processo di presa di consapevolezza e la capacità immensa dello spirito, simbolicamente capace di prendere ed abbracciare il nostro corpo materiale ed insegnare a noi stessi come fare ad amarci, a prenderci cura di noi, a diventare padre e madre di noi stessi. Ecco allora che il passato non scompare, non combattiamo contro qualcosa che non possiamo cambiare, ma accettiamo e lottiamo per qualcosa che possiamo avere, per l’amore che abbiamo il diritto di ricevere e che si impara a donare. 

L’assoluta volontà di disidentificazione con la madre, reale o simbolica, qui scompare dopo che la madre di Ellen l’accetta realmente per quello che è, tanto da comprendere anche se lei non volesse più combattere. L’antica relazione perduta viene ritrovata.

Allora non c’è più tempo per punire, non c’è più posto per un attaccamento morboso alla malattia, per avere tutto sotto controllo.

Allora è tempo di rinascita, di motivazione, di vita. Vita che porta in grembo i concetti stessi di dolore e sofferenza, non possono non esistere.Film toccante ma anche molto ironico, il rapporto fra i diversi pazienti della casa di cura è commovente ma soprattutto pone l’accento sull’importanza delle relazioni umane.