The Turning - La casa del male - Recensione

Il film tratto dal Giro di Vite di Henry James è da latte alle ginocchia.

The Turning - La recensione - The Turning - La casa del male

Questa recensione se la prenderà comoda, non ho voglia di parlare subito di un film che si è preso minuti della mia vita offendendo la loro importanza in relazione a quello che poi mi ha lasciato. Vuoto cosmico e noia esistenziale. Piuttosto, ampliamo un filino il discorso, perché è giunto il momento di provare a far sussultare l’elefante nella stanza.

Si sente spesso dire, negli ambienti creativi, che è più facile far piangere che ridere. La tristezza può essere suscitata da figure ancestrali e situazioni istintive che forse solo i sociopatici non condividono. Non voglio dire che tutte le canzoni tristi devono inumidire gli occhi di ogni singolo ascoltatore, ci sono certe lagne in giro che avere i timpani sembra più una condanna che un risultato evolutivo. Però, pur con tutto il cinismo che si può cercare in fondo ad un cuore di pietra, lo stereotipato cucciolo di animale maltrattato smuove sempre qualcosa. Sono sette anni che Keanu Reeves va in giro a forgiare vedove in memoria di un cucciolo trucidato, con il plauso del pubblico.

Strappare una risata invece è tutt’altra storia, perché non può essere il solo risultato della storia umana, ma deve per forza passare attraverso le maglie di quella personale. Si ride sulla base delle proprie conoscenze culturali, delle inclinazioni caratteriali e anche del momento. Ho amici che mi sotterrano quando si parla di letteratura e poi basta darsi a rutti e peti per gettarli nell’ilarità, altri invece abbozzano sorrisi solo di fronte a iperboli da gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi.

In tutto questo, la paura da che parte sta? Io direi che condivide le premesse della risata. Oh, certo! C’è la paura atavica, ancestrale. Buio, mostri e raccomandate in carta verde, ma l’evoluzione della nostra società e della nostra educazione ha trovato difficoltà solamente nello sradicare l’ultima. Per questo motivo, il fatto che il cinema perseveri nella sua convinzione di poterci spaventare con i soliti copioni da CTRL+C, CTRL+V, si è fatto insultante.

Negli ultimi mesi, con un amico, abbiamo dedicato diverse serate allo streaming horror, con una sola regola: cercare film prodotti da nazioni sempre diverse. Abbiamo visto pellicole (si può ancora dire a cavallo del nuovo millennio cablato in fibra?) norvegesi, polacche, coreane, spagnole, inglesi, italiane, austriache, cinesi, giapponesi, indiane e sudanesi. Tutte avevano pregi e difetti, e tutte passavano sempre e comunque per certi cliché non dovuti alle basi condivise di quello che è la paura, ma a quello che è il cinema horror secondo la visione che va per la maggiore.

Sei a casa da solo e nel tuo giardino si staglia una donna in vestaglia dal pallore cadaverico e dagli occhi lattiginosi, che fai? Non ti avvicini per toccarle la spalla?
Ti mancano i famigerati cinque giorni al congedo dal dipartimento di polizia di North American Genericville e una chiamata ti porta davanti a una casa dalle cui finestre escono canti latini e spire di un’energia purpurea. Perché chiamare rinforzi quando puoi entrare con la tua fida torcia e la scacciacani? Vogliamo infine parlare del fatto che ci sono più opere a tema zombie che versioni di Skyrim e ancora, quando qualcuno vede incespicare verso di sé un figuro senza un braccio e con il cranio sbucciato, esclama “ehi tu! Non fare un altro passo”?

Eh, ma i protagonisti non sanno di essere in un film horror. Verissimo. Nemmeno io sono mai stato rapinato, ma la porta di casa la chiudo lo stesso la sera, e se niente niente il televisore si accende da solo nel cuore della notte, apro Amazon alla ricerca di quello nuovo mentre il dispositivo conclude il suo volo dal balcone. La prima cosa che faccio quando entro in una casa infestata non è urlare chiedendo se c’è qualcuno, perché quello che proprio non voglio è ottenere risposta. E se già ci schifa rispondere al citofono per rispondere all’agente immobiliare stagista che non sappiamo se ci sono appartamenti in vendita nella zona, non vedo come possa uno zombie arrivare a meno di dieci metri da noi.

Bene, parliamo di The Turning – La Casa del Male.

Montessori out

Disponibile da qualche giorno sul servizio streaming di Amazon, Prime Video, The Turning – La casa del Male è un riadattamento diretto da Floria Sigismondi del Giro di Vite di Henry James. Se l’opera di riferimento vi ha fatto suonare un campanello, è normale: Netflix aveva già dato la sua versione dei fatti con The Haunting of Bly Manor.

Nel 1994 immaginato da Sigismondi, Mackenzie Davis veste i panni di una tutrice incaricata di seguire l’educazione della piccola orfana Flora Fairchild che, insieme al fratello maggiore Miles, vive nella tenuta di famiglia con la governante. L’elemento inquietante è dato dal fatto che la precedente tutrice è scappata a gambe levate poco tempo prima. A Kate (il personaggio di Davis) non ci vuole molto a intuire le cause di quell’abbandono. I due pargoli hanno atteggiamenti misteriosi e scostanti. Parlano di e con persone non presenti e guardano verso punti della stanza come se stessero cercando lo sguardo di qualcuno. Miles in particolare, qui interpretato da Finn Wolfhard, oscilla fra il moderatamente inquietante e l’apertamente maniaco. Il tutto perché la casa e la storia di quella famiglia nascondono storie di violenza e morte.

Da dove nascono? The Turning non lo spiega. Verso la fine, una visione di un futuro possibile offre un veloce e approssimativo chiarimento, ma è buttato peggio di un mazzetto di shangai, con le entità malvagie che dopo aver speso giorni a tormentare la nuova tutrice, fanno sagra. Il finale poi dovrebbe simboleggiare la discesa nella pazzia della protagonista, ma di contrappasso offre il ritorno alla sanità mentale dello spettatore, che dopo più di novanta minuti può tornare alla vita.

Il problema è che la storia è piatta e mal presentata? Sì, assolutamente. O forse che il cast, per quanto non di seconda scelta, si riveli sotto soglia sindacale? Anche. Finn Wolfhard mette in scena un ragazzo chiaramente disturbato, e i motivi possono essere tanto psicologici quanto paranormali, la scelta sta allo spettatore, ma non per questo meno insopportabile. Novantanove persone su cento avrebbero gestito quello psicopatico in erba in modo completamente diversa, e l’unica che non lo fa si trova proprio in quella casa, dalla quale non fugge per una promessa fatta a una bambina che nel tempo libero parla con gli specchi e getta manichini nelle piscine per far finta che siano cadaveri da recuperare. Plauso per la dedizione professionale di Mackenzie Davis, ma dovrebbe imparare a tracciare qualche linea.

Insomma, ho scritto anche troppo di un film che ho potuto concludere solamente grazie a due pause (qui, ormai ogni primo pomeriggio, si deve correre fuori a recuperare gli stendini esposti al temporale quotidiano) e al fatto che i buchi narrativi li riempivo con le informazioni avute in precedenza dalla serie di Netflix – che non ha nulla da spartire con The Turning, se non il romanzo di partenza.

Sono passati 748 giorni dall’ultimo film horror meritevole, e l’attesa continua, la speranza soffoca, la voglia scema.

Verdetto

Non ci siamo. Fiacco, noioso e poco ispirato. Qualche momento illude lo spettatore, ma poi si arriva alla fine con gli occhi sullo smartphone.

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The Turning - La recensione

3
Terribile
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