THE LOBSTER - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Fantascienza, Grottesco, Recensione

THE LOBSTER

Titolo OriginaleThe Lobster
NazioneIrlanda/ Gran Bretagna/ Grecia/ Francia/ Olanda
Anno Produzione2015
Durata118'
Scenografia

TRAMA

In un futuro prossimo i Single, secondo quanto stabiliscono le regole della Città, vengono arrestati e trasferiti nell’Hotel, dove sono obbligati a trovarsi un partner entro 45 giorni…

RECENSIONI

Sezione minore a Berlino (Kinetta), sezione minore (“Un certain regard”) a Cannes (Kynodontas), concorso principale (e premio laterale) a Venezia (Alpis), e ora il concorso principale a Cannes. In soli quattro lungometraggi, il geniale Yorgos Lanthimos ha compiuto un'esemplare scalata del circuito festivaliero internazionale. Installatosi a Londra da qualche anno, il regista è riuscito, per questo The Lobster, ad assicurarsi un cast da urlo (Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Lea Seydoux...) e un budget piuttosto robusto. Una lettura veloce della sinossi dà già adeguatamente la misura di ciò che aspetta lo spettatore. In una civiltà imprecisata che però assomiglia in tutto e per tutto al nostro presente occidentale, i single vengono rinchiusi in un albergo di lusso, dove dovranno trovare un partner in un numero di giorni prefissato, ma prorogabile qualora il/la detenuto/a riesca ad acciuffare uno o più single clandestini che si rifugiano nella foresta, nel corso di periodiche battute di caccia organizzate all'uopo. In caso contrario, il/la detenuto/a viene trasformato in un animale di sua scelta, e rilasciato. L'aragosta (lobster, appunto) è l'animale scelto dal protagonista; il film, però, non è esattamente costruito intorno a lui, bensì intorno agli sforzi suoi e di una single clandestina di coronare il loro amore nonostante i simmetrici e speculari ostacoli frapposti tanto da un potere brutalmente amministrativo-burocratico quanto dalla “resistenza ufficiale” ad esso, annidantesi nei boschi al di fuori della sua presa.Ci riusciranno? Non è ovviamente il caso di spoilerare, ma bisogna immediatamente sgombrare il campo da un equivoco: non si tratta minimamente di un film cinico, anche se in superficie può sembrarlo. Al contrario, The Lobster sembra fatto apposta per smontare pezzo per pezzo il venefico cinismo vontrieriano dei vari Antichrist e Nymphomaniac. Al posto del pessimismo facilone di titoli come questi, si assiste qui all'emergere della possibilità della coppia sullo sfondo della propria intrinseca impossibilità. La possibilità della coppia è il centro vuoto intorno a cui viene costruita l'intera sceneggiatura, che a forza di far proliferare i doppi e gemmare concettualmente le differenze sfoglia uno ad uno i mille modi in cui una coppia non può che fallire. Sulla scia di questo principio sfacciatamente cerebrale, il film diventa un sistema di spigoli vivi che Lanthimos giustamente non fa nulla per smussare, soprattutto perché esso ingenera automaticamente un irresistibile humor dell'assurdo: chi si masturba viene costretto a infilare le mani in un tostapane; un innamorato si mette di colpo a sbattere la testa contro un comodino affinché gli sanguini il naso per poter piacere a una ragazza costantemente affetta da epistassi; e così via... Su questo sistema di spigoli vivi messo insieme dalla scrittura, viene innestato un apparato visivo di meticolosa, quasi ossessiva precisione grafica (del resto, il protagonista è un architetto) – la quale però viene molto spesso “smangiata” da dentro dall'informe: negli interni, dalla luce; negli esterni, dalle distese d'erba irlandesi o ancor più sovente dall'acqua.

Laddove un von Trier tende all'autosufficienza del quadro, cercando così di far risucchiare il cinema nell'arte contemporanea, Lanthimos segue il percorso contrario: le sue inquadrature strabordano di squadrato formalismo grafico, ma il montaggio, decisamente più veloce che nelle altre sue opere, nel metterle insieme tenta di rincorrere un'ordinaria continuità “Hollywoodiana”, mancandola sempre per un pelo. La recitazione, qui più naturalistica del (suo) solito, va nella stessa direzione, stridendo felicemente con la selvaggia astrazione di tutto il resto. La continuità, come la coppia, non è semplicemente impossibile, ma è il centro vuoto che non si riesce mai a centrare, rosicchiandone invece costantemente i margini. Alla base di tutti i suoi film c'è un microcosmo fondato su un sistema di regole dalla logica tanto inoppugnabile quanto arbitraria e fondata sul nulla; The Lobster illustra come liberarsi tanto di queste regole quanto della loro assenza, la quale in realtà è ancora più regolata e opprimente: i single clandestini, per auto-organizzarsi, scelgono di sottostare a codici ancora più rigidi di quelli dell'hotel. Il segreto di questa liberazione (dunque dell'amore)? Trovare nel reciproco essere oggetto dello sguardo dell'altro il miracoloso spazio cieco dentro cui tessere le regole che si applicano a null'altro che al proprio caso.

«L’idea di questo film – dichiara Yorgos Lanthimos - è  nata  dalle  discussioni  su  come  le persone sentono la necessità di trovarsi costantemente in una relazione amorosa, sul modo in cui alcuni vedono coloro che non hanno una relazione; su come si venga considerati falliti se non si sta con qualcuno». Parole interessanti se rilette in termini di scenario sociale, configuranti un'immagine di società disciplinare che trova poi un effettivo riscontro nella rappresentazione filmica e che si riconferma concetto fondante del discorso autoriale del regista. Il contesto proposto in The Lobster è una nuova declinazione della struttura coercitiva: dopo la famiglia di Kynodontas e l'agenzia di Alpeis, questa volta lo spazio laboratoriale in cui sperimentare inedite socialità (colte, come sempre, nel momento del collasso o della crisi) è quello di un hotel per single, che ha più i contorni di una clinica riabilitativa, dove ciascuno degli ospiti è obbligato, nell'arco quarantacinque giorni, a trovare un partner, pena la trasformazione in animale e successiva soppressione. Un collegio infernale in cui si compie, per mezzo di regole tediose, complesse e inflessibili, cardini d’una dottrina sociale repressiva che non ammette obiezioni (tutto è disciplinato secondo i criteri che formalmente richiamano l’ordine e la normalità, così che le aberrazioni sono identificate con la quotidianità), una vera e propria fascistizzazione del comportamento. L'alternativa a questo sistema, che guarda unicamente alla sopravvivenza dei più adatti, quelli capaci d'uniformarsi alla richiesta di una vita di coppia, è rappresentata dai “Solitari”, coloro che decidono di rifiutare il modello imposto scegliendo una clandestinità nei boschi votata alla limitazione di qualsiasi rapporto umano; espressione di una controcultura che si rivela però altrettanto precettistica, punitiva e castrante (anche qui, sottrarsi o infrangere le disposizioni stabilite comporta sanzioni crudeli e spietate).

Chi da una parte chi dall'altra è, comunque, un ridicolo soldatino in uniforme, un burattino meccanico i cui gesti si ripetono, si rincorrono ormai svuotati di senso e di sensorialità. Le opposte reclusioni sono modelli-stampi di regole spente, degli spazi tautologici che hanno in sé il proprio principio e la propria fine. Succede, tuttavia, come raccontato più volte da Ballard, che in queste caricature di società certe pulsioni basilari dell'uomo, represse ma non cancellate, possono riemergere. A scatenare il gesto collerico, come sempre accade negli universi reclusivi allegorizzati da Lanthimos dove i soggetti sono capaci soltanto di eseguire ordini, ricalcare schemi, o recitare parti di un canovaccio prestabilito, è uno stimolo avverso al universo di valori vigente quasi sempre ricevuto da una registrazione: in Kynodontas lo slancio individualistico che permetteva di snodarsi dalla stretta soffocante dei legami familiari era indotto dalle visioni clandestine di Rocky, Lo squalo e Flashdance, «tutti film - come scrive Michele Sardone - esemplari dell'immaginario formatosi fra la metà dei Settanta e l'inizio degli Ottanta e oggi dominante, secondo il quale l'individuo non è più soggetto a un ordine normativo che lo trascende, ma vede la potenza del suo io dispiegarsi senza limiti; in The Lobster, David, dopo essere fuggito dall'hotel e mischiatosi ai Solitari, comincia ad innamorarsi della Donna Miope attraverso l'ascolto in cuffia di 'Where the wild roses grow' di Nick Cave. Anche qui, dunque, come nei precedenti lavori del regista greco, il dubbio se la ricezione permetta al personaggio di comprendere i propri impulsi, o se questi, invece, non siano una diretta conseguenza di quanto visto o ascoltato. Questa rilettura delle dinamiche sentimentali permette a Lanthimos di proseguire l'analisi sull'interiorizzazione delle logiche neoliberiste, diventate a tutti gli effetti una dominante cognitiva. L'istituzione della coppia a livello governativo, come viene immaginata in The Lobster, è indicativa del bisogno capitalistico di disporre di individui inquadrati (risultato possibile attraverso il  perfezionamento delle tecniche disciplinari e dei dispositivi di sicurezza) per poter far proseguire il sistema produttivo industriale di stampo seriale. Il regista continua a riflettere, per dirla alla Foucault, in termini di 'governamentalità', concentrando il proprio discorso sul complesso di istituzioni, procedure e tattiche per mezzo delle quali regolamentare l'esistenza. L'individuo, nel cinema di  Lanthimos, non cessa di passare da un ambiente chiuso all'altro, ciascuno dotato di proprie leggi. Alla fine «Non c'è nessuna 'realtà' vera o reale. La 'realtà' è semplicemente uno schema [...]. Questo schema che accettiamo come 'realtà' ci è stato imposto dal potere che controlla questo pianeta, un potere orientato principalmente verso il controllo totale.

Se dal punto di vista concettuale il discorso prosegue coerente, sfiorando però la ripetitività, lo stesso non può dirsi in termini di resa. The Lobster più che attestare le marche stilistiche del cinema di Lanthimos, che qui si confronta per la prima volta con una dimensione produttiva mainstream, le riduce a maniera facendo risultare il film una decalcomania mal riuscita dei lavori precedenti. La voce, che come spesso succede nell'opera del regista greco arriva dal fuori campo, è ridotta a ridondante commento didascalico; l'immagine pur livida e fredda manca di quel sentore asettico, ambulatoriale, che la rendeva fascinosamente respingente. Ma ciò che qui si perde maggiormente è quel senso di struttura follemente razionale, che caratterizzava invece gli altri film, capace di farsi contenitore per una rappresentazione cinematografica dove la sgradevolezza del soggetto effettivo veniva dissimulata e, insieme, esasperata dalla rigorosa teatralizzazione formale.