Hustle: la recensione del film Netflix con Adam Sandler
Sandler in versione seria, e efficacissima, in questo sport drama prodotto da LeBron James e popolato di leggende della NBA di ieri, di oggi e di domani che mescola con attenzione malinconia, umorismo e riscatto sportivo e personale. In streaming dall'8 giugno su Netflix.
"I love this game". Amo questo gioco.
Molti di voi magari se lo ricorderanno questo slogan, che veniva usato dalla NBA per promuovere sé stessa e la cultura del basket negli anni Novanta, quelli dominati dai Bulls di Michael Jordan.
Anche Adam Sandler lo ripete spesso, in Hustle. "I love this game". Di più: spiega al suo pupillo - al talentuosissimo ragazzo spagnolo che ha scovato per caso in un playground di Madrid, e ha portato con sé a casa, a Philadelphia, per farlo entrare nell'NBA e rientrare così lui stesso nel giro che conta dalla porta principale - che amare il gioco non basta. Nemmeno il talento, da solo, basta. Bisogna essere ossessionati, da quel gioco lì, per arrivare in cima.
Non è fallo da spoiler dire che, alla fine di Hustle, il giovane Bo Cruz (che poi è il giocatore degli Utah Jazz Juan Hernangómez, bravo pure come attore e non solo sul parquet) e lo Stanley di Sandler riusciranno entrambi nel loro intento. Perché le regole dello sport drama sono precise, e questo film di Jeremiah Zagar scritto da Taylor Materne e Will Fetters (quello di A Star is Born), le rispetta tutte.
Il che magari lo rende prevedibile, ma comunque rassicurante, e soprattutto equilibrato. Senza contare che, come spesso accade in questo genere di film, il valore aggiunto è quello si cela nei dettagli, nelle sfumature.
Nelle interpretazioni, anche.
Adam Sandler, quindi. The Sandman, come lo chiamano i suoi fan.
Qui, in questo film, si chiama Stanley Sugarman, è un ex talento del college basketball che ha dovuto rinunciare alla carriera a causa di un incidente stradale, che è uno dei migliori scout in circolazione e che è stato appena nominato assistant coach dei 76ers dal loro proprietario, quando questi muore lasciando la franchigia nelle mani di un figlio che odia Stanley, lo rimetterà a fare lo scout in giro per il mondo, e cercherà anche di boicottarlo nell'operazione Bo Cruz.
Adam Sandler, che qui forse non è bravo come in Diamanti grezzi, film per cui avrebbe meritato un Oscar, ma anche due (e invece ha preso solo l'Independent Spirit Award), ma che sicuramente è bravo quanto era stato bravo in Ubriaco d'amore, Reign Over Me o The Meyerowitz Stories. E cito solo i suoi film "seri", perché in troppi avete ancora troppi problemi per capire il valore del Sandler comico. A differenza mia e di P.T. Anderson.
Lo Stanley di Sandler, qui, assomiglia un po' al Ben Affleck di Tornare a vincere, ma con molto meno alcool, una quantità simile di la stessa disillusione ("gli uomini sulla cinquantina non hanno sogni", dice, "hanno gli incubi e l'eczema"), ma anche un po' più ossessione. Determinazione. Quella cosa che gli fa dire, e ripetere, "Never back down", non arrendersi mai. Lo impara anche il Bo di Hernangómez.
Che poi lui, Juancho, non è mica l'unica star della NBA che appare nel film. In Hustle ci sono vere e proprie leggende della NBA di ieri e non: dal grande Doctor J fino a Sixers di oggi come Tyrese Maxey, Tobias Harris e Matisse Thybulle, passando per gente come Trae Young, Charles Barkley, Allan Iverson, Shaquille O'Neal, Kyle Lowry, Anthony Edwards e Kenny Smith.
I love this game, e mi piace Sandler. Per promuovere Hustle, sport drama solido, attento nel miscelare malinconia, riscatto e umorismo, e avvicente il giusto, basta e avanza.
Gli appassionati calcio non si offendano, mi raccomando, per un paio di battutacce di Sandler contro lo sport che lì, in America, chiamano soccer.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival