Il film più serio sul basket è quello con Adam Sandler

Hustle è su Netflix da oggi, è un nuovo capitolo nella storia del Sandler serio ma soprattutto coinvolge la vera Nbe ad un livello inedito
Hustle il film più serio sul basket è quello con Adam Sandler

Adam Sandler è davvero un appassionato di pallacanestro e con Hustle è finalmente è riuscito a realizzare il film definitivo sul tema, o almeno uno dei possibili film definitivi sull’argomento. Gli appassionati se ne rendono conto subito, tutti gli altri lo realizzano sui titoli di coda quando viene mostrata l’impressionante sfilza di veri giocatori, veri ex giocatori, veri allenatori e veri proprietari di squadre che nel film hanno interpretato se stessi (e qualcuno ha anche recitato un ruolo di finzione). Hustle è un film così immerso nel vero basket americano che ogni inquadratura è immersa in una folla di veri corpi e vere personalità della pallacanestro. Anche europea. Tuttavia non sarebbe bastato questo a farne un buon film, anzi se proprio va detto, questo era un elemento di difficoltà in più.

La storia infatti è quella di un talent scout che viaggia in diversi paesi del mondo alla ricerca di nuove promesse del basket ma che vorrebbe smettere questa vita faticosa e diventare allenatore. Quando un talento vero, puro e grezzo, lo trova (in un campetto in Spagna), fa carte false per portarlo in America anche se nessuno sembra fidarsi di lui. Rigettato dalla sua stessa società, lasciato solo con il potenziale campione punterà tutto (anche i suoi soldi) sulla promessa. E già il campione è in realtà un nome noto dell’Nba, è Juancho Hernangòmez (in forza agli Utah Jazz), cosa che assicura in partenza che tutte le scene di gioco siano perfette, realizzate da veri professionisti, ovvero il basket giocato per davvero, gli allenamenti come si fanno davvero e i veri luoghi e vere dinamiche dell’NBA.

Il problema è che la sceneggiatura promette malissimo, un copione che sembra non lavorato. Sembra una prima versione di una sceneggiatura, cioè una storia come mille altre se ne vedono e girano nel cinema sportivo americano a cui ancora non sono state date sufficienti martellate per renderla un po’ originale, per creare qualche piega inusuale che gli dia personalità. Tutto in Hustle va esattamente secondo il modello prestabilito, ascese e risalite, sconfitte, allenamenti e vittorie come si possono prevedere per calcare il modello aureo del cinema sportivo: Rocky (anche citato, e giustamente, dal film). Non c’è da stupirsi se ci si trova a prevedere le svolte poco prima che avvengano. A fare la differenza, lo si capisce quasi subito, è però il fatto che ​​stavolta la storia di riscatto sportivo è vista dal punto di vista dell’allenatore (come se in Rocky seguissimo Mickey invece di Rocky Balboa) e soprattutto c’è un’esecuzione ottima, votata al sentimentalismo degli sconfitti, di grande umanità, che sta in gran parte sulle spalle di Adam Sandler.

Come già in Diamanti grezzi qui Sandler non si limita solo a “funzionare bene” (quel che accadeva in Ubriaco d’amore), ma guida tutto il film, ne imposta ritmo e sentimenti oltre a farsene costantemente ancora di salvataggio. Quando c’è bisogno di rimettere tutto sui binari giusti le inquadrature finiscono inevitabilmente sul suo volto, su quegli occhi tristi e quella faccia da perdente irredimibile. Quando ascolta le brutte notizie, quando prende pugni dalla vita Sandler è imbattibile, racconta tantissimo anche senza parlare e indica a tutto il film la via, ovvero l’esatta mescolanza di drammatico e inspirational da utilizzare per trasformare una sceneggiatura pedissequa e banale in qualcosa di vibrante e sincero. Spara grandi massime (“I 50enni non hanno sogni, solo incubi ed eczema”) e non molla mai Hernangòmez, cioè non lo lascia mai in scena da solo se quando è sul campo (ma anche lì la regia stacca sempre su Sandler e dalla sua recitazione noi capiamo come sta andando il gioco), gli dà i tempi giusti, i ritmi giusti e ci fornisce l’impressione che anche quel giocatore non proprio espressivo stia recitando.

Un lavoro extra che testimonia quanto il film sia un prodotto anche di Sandler (che non a caso ne è produttore insieme a LeBron James). Lui, con quel tutore alla mano frutto di una backstory che ci verrà raccontata al momento giusto, con una barba da uomo medio e una famiglia sulle spalle (gran personaggio la figlia!), attraversa nel film lo schema classico di rivelazione, caduta, purificazione e ascesa che solitamente tocca all’atleta. Stavolta è il suo arco narrativo a conquistare, questa è senza dubbio la storia dell’allenatore e del suo tentativo di cambiare la vita puntando tutto su di sé e sulla sua scoperta. Quegli interni morbidi dalla luce soffusa, quella color correction tenue e autunnale e soprattutto il camerawork complicato e a mano che avvicina tutto ai volti, sono la scelta di Jeremiah Zagar (il regista) per elevare tutta questa storia banale su un piano più umano. È un quasi esordiente Zagar ma dimostra di adattarsi benissimo al progetto, non ha nessuna riverenza per i veri giocatori (che, vale la pena ripeterlo, chi non li conosce non capirà automaticamente che non sono attori, tanto il film li tratta e li illumina e inquadra alla stessa maniera) e soprattutto gestisce molto bene il ritmo.

Così una storia convenzionale di due uomini che stabiliscono un rapporto quasi da padre-figlio e si salvano a vicenda, una storia americanissima in cui ad ognuno è concessa una seconda occasione per arrivare alla grandezza che desidera, una storia di denaro, mercato, transazioni e dedizione, viene plasmata in un film molto intimo invece di finire per essere la solita parabola così uguale a mille altre da dare l’impressione di non avere un’anima propria.