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"The Fountain" è una odissea sulla lotta millenaria di un uomo per salvare la donna che ama. Il suo epico viaggio ha inizio nella Spagna del XVI secolo, dove il conquistador Tomas Creo inizia la sua ricerca dell’Albero della Vita, una pianta leggendaria che si racconta possa donare la vita eterna a chi beva la sua linfa. Come scienziato nella nostra epoca, Tommy Creo cerca disperatamente di trovare una cura per il cancro che sta uccidendo la sua amata moglie Isabel. |
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Dopo più di cinque anni di silenzio (registico), Darren Aronofsky presenta il suo terzo lungometraggio, “The Fountain”: è un’opera che non lascia indifferenti, e dirlo è un atto dovuto nei confronti della potenza espressiva, sul piano visivo, del regista e sceneggiatore newyorkese, ma anche un modo per affrontare l’analisi da un punto di vista essenzialmente psicologico.
La sensazione è quella di essere sballottati tra realtà diverse ed estreme, collegate tra loro su piani metafisici che esulano dalle realtà in questione e riguardano, principalmente, il mondo interiore dello spettatore e, al limite, dell’anima (intesa come principio di vita, creazione, quindi significato alla base della sceneggiatura) del personaggio multiforme sullo schermo.
I momenti in cui la storia si dipana finiscono paradossalmente per essere di disturbo al viaggio nel tempo, nel racconto, nelle invenzioni mitologiche e letterarie, ma soprattutto nella retina dello spettatore ammaliato molto di più dall’ocra della nebulosa, dalle stelle che l’ascensione dell’albero si lascia dietro (ascensione al luogo edenico della vita, indagandone non l’inizio ma la fine) che dal mistero di una mappa del cielo e allo stesso tempo della terra, accesso ad una piramide nascosta e insieme alla nebulosa che i Maya – soggetto cinematografico di moda, quando una cosa è esagerata perfino per le religioni nostrane il cinema ritira fuori i Maya – chiamano Shibalba.
A questo viaggio obliquo, affascinante per costruzione e realizzazione al di là del significato che possa ricoprire, s’intreccia, per necessità intrinseche, una breve storia dall’andamento scontato, a cui la ricerca ultraterrena dovrebbe fare da metafora. In un contesto non originale, anche i due diversi atteggiamenti dei protagonisti non si discostano dai cliché della situazione, permettendo almeno a un buon Hugh Jackman di mostrare una gamma di espressioni che a Rachel Weisz è negata dal copione. Quella che dovrebbe essere la ‘normalità’ in questo film visionario finisce per diventare un mondo tanto più assurdo quanto più cerca di essere verosimile, con frasi del calibro di “la morte è una malattia come tutte le altre” che solo la maestria di Aronofsky nell’ammaliare la mente (e lo sguardo) dello spettatore riesce a smorzare.
Si tratta di un trucco, alla fine, nient’altro che un trucco: tra citazioni (in apertura e in chiusura) da “Indiana Jones e l’ultima crociata”, Aronofsky seduce lo spettatore e ne conquista lo sguardo quanto basta per distrarlo e concludere una storia poco più che mediocre lasciando, al contempo, che creda esattamente al contrario: ovvero che il film sia la storia, e il trucco sta lì per contorno. Invece il film rimane negli occhi, svelato il trucco non c’è una soluzione ma niente. |
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Commenti del pubblico |
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