The Elephant Man, di David Lynch

A 40 anni dalla sua realizzazione torna in sala il secondo lungometraggio del regista statunitense in versione restaurata, distribuito dalla Cineteca di Bologna.

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Nella Londra vittoriana un uomo, nato deforme in seguito ad un incidente capitato alla madre mentre era incinta (calpestata da un elefante in terra africana) viene esposto come fenomeno da baraccone nella galleria dei freaks. Sarà il dottor Treves a salvare dalla prigionia l’uomo-elefante, ad accudirlo e curarlo, ma anche ad usarlo per le sue conferenze mediche. John Merrick – l’uomo elefante – è dotato di una sensibilità notevole e viene introdotto nella Londra-brne fin quando un uomo senza scrupoli mostrerà nella notte “the elephant man” a un gruppo di avventori. John Merrick fuggirà ritornando ad essere, lontano dall’Inghilterra, una delle attrazioni più “richieste” dei circhi. Lo salveranno prima i suoi compagni di sventura favorendogli la fuga e poi ancora il suo medico e amico Frederick. Nel suo ospedalr John vivrà serenamente gli ultimi giorni della sua vita.

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È stato il primo film di David Lynch ad uscire nelle sale italiane. Una storia limite (stranamente) candidata ai Premi Oscar, la storia di John Merrick, l’uomo-elefante. Un film “fuori tempo”, in bianconero, sussurrato…Prodotto da Mel Brooks che definì David Lynch “un James Stewart venuto da Marte”.

Un film, The Elephant Man, non intaccato dallo scorrere del tempo. Visioni e ri-visioni (sullo schermo, nei passaggi tv, in home video) non ne scallfiscono l’autenticità, l’emozione assoluta, lo stordimento provocato da quelle immagini la prima volta. Un film tutto ancora nella memoria, cresciuto senza chiedere spazio e importunare. Con i suoi fumi avvolgenti, ipnotici, cullanti. Con  suoi silenzi e urla improvvise. Un film che non ha mai chiesto di essere ricordato o “tirato fuori”, nonostante i film seguenti di Lynch, i suoi lavori “extra” (gli spot, lo sguardo “sui” francesi, Twin Peaks, le “american chronicles”), il recupero dei testi precedenti (i cortometraggi ed Eraserhead, il suo primo lungometraggio) si ponessero in campo con più determinazione, con più violenza (e desiderio di venire, più volte, violentati/visti). Scoprendo – in questo tempo di visione sospeso – che in The Elephant Man c’erano già ‘cose’ riassorbite nei film successivi o tutte già compres(s)e in Eraserhead: la zona senza tempo (non più solo Londra), le strade velate di nebbia, fumi, contrasti luminosi, le case e il set vera presenza-freak dietro/dentro la quale nascondere altri corpi, terrorizzati e terrorizzanti. All’interno di una vicenda tutta detta ma per nulla mostrata, continuamente sottratta alla visione globale – come poi accadrà fra le linee tutte buie di Industrial Simphony N° 1. In superficie il film più trattenuto lineare ‘semplice’ di Lynch. The Elephant Man nasconde una natura febbrile, una densità melodrammatica che gli anni e le numerose visioni frappostesi nel corso del tempo non sono riusciti a scardinare.

The Elephant Man nasce dieci anni prima di Cuore selvaggio e si pone fin dall’inizio – è il 1980 – in contrasto con un decennio (s)morto: colpisce per la sua forza penetrante. Ambientato nella Londra vittoriana, il film si apre e chiude su due mondi di appartenenza ancora più lontani, confusi in un tempo passato/futuro che annienta ogni tentazione di didascalicità e di identificazione con un periodo ‘storico’ ben definito.

Nel tempo della memoria che appartiene, che è custodito dalla madre (assenza cui sempre il film rimanda, ossessivamente fisica) di John Merrick/John Hurt. Negli occhi di lei, strappati al suo corpo dai dettagli impietosi cuciti nell’azione, sempre in movimento avvolgente, costruita da Lynch.

Nel “prologo” iniziale, dopo il nero su cui scorrono i titoli di testa, martellante pressione di un incubo raccordato da dissolvenze incrociate, ralenti, fermi-immagine, un lungo incubo in apnea per “ricordare” l’incidente che colpì la donna al quarto mese di gravidanza, calpestata da un enorme elefante “in terra d’Africa, su un’isola sconosciuta” dirà poi Freddie Jones ad Anthony Hopkins nella sua baracca di “periferia”.

E nel frammento spaziale e infinito che segue la morte di John. La finestra (nel corso del film destinata a trasformarsi in schermo – per i visitatori notturni in “processione” pagata per vedere di nascosto  l’uomo-freak – in specchio – John si vede attraverso essa – o ancora in schermo – stavolta per John che vede al di là la cupola della cattedrale che ricostruirà in miniatura nella sua stanza) viene frantumata in mille pezzi di neve/stelle, scaraventata nell’universo-set futuribile che ha accolto le visioni low budget di Eraserhead e accoglierà, quattro anni dopo (1984), quelle kolossal di Dune. È ancora la voce della madre di John, uno dei più compatti corpi/non corpi che popolano l’immaginario lynchiano, a proporsi, a dire “Mai oh…mai niente morirà l’acqua scorre il vento soffia la nuvola fugge il cuore batte…niente muore”.

Elementi di evanescenza, imprendibili, troppo liberi dentro (il cuore) o fuori (vento nuvole acqua) corpi infiniti, viaggiano nel mondo trasversale anche di The Elephant Man. Segni soprattutto invisibili in un film densamente immateriale, in cui fin dall’inizio – ancora quei dettagli insopportabili allo sguardo…- “si sa” che bisognerà immaginare. Come fa John Merrick, costretto dalle circostanze, dalle condizioni fisiche, all’impossibilità a muoversi, salvo rare occasioni, e a circolare normalmente, se non accompagnato, come d’altronde lo spettatore-fruitore di fronte allo schermo. “Io devo affidarmi alla mia immaginazione, per quello che da qui non vedo” dirà John ad anne Bancroft mentre sta ricostruendo nella sua camera d’ospedale la cattedrale di cui vede soltanto la sua punta estrema, la cupola-iceberg.

E così lo spettatore dovrà immaginare. Di vedere il corpo deformato di Merrick. Per mezz’ota un “disegno” teatrale, di tende aperte e chiuse, di luci troppo scure per poter vedere, di sipari e maschere, nasconderà l’uomo in set diversi ma in cui ugualmente viene esposto: il baraccone di un circo degli orrori o la sala per conferenze mediche (ne vediamo solo l’ombra dietro la tenda, lo schermo per un attimo trasformato in lanterna magica).

Immaginare. Di vedere l’incontro fra madre e figlio, mentre ogni corpo di donna fisicamente mostrato (la moglie del medico, l’attrice di teatro…) “ricordano” quello della madre.

Immaginare. Di vedere – “semplicemente” – John Hurt dietro la protesi portata per tutte le riprese: la testa enorme e deformata, bubboni tumorali per tutto il corpo, labbra devastate dal male congenito.

Immaginare…sgranare gli occhi, insieme a Hopkins, nel freddo della notte, alla ricerca di qualcosa e qualcuno, di un tassello mancante o “di troppo”. Cercando di vedere oltre un vetro sporco immagini sotterranee o sparse nello spazio. Mai, comunque, a misura di sguardo lineare. Neppure all’interno del film più “tradizionale” e narrativamente compatto di Lynch. Di un film che è stato candidato nel 1980 a 8 Oscar, e tra questi miglior regia e sceneggiatura. Di un lavoro tratto dalla storia autentica di John Merrick, e non dal dramma teatrale omonimo messo in scena a Broadway o “da altri lavori frutto dell’immaginaziione”. E che inizialmente è stato rifiutato da tutti i produttori, pessimisti di fronte alla storia (e alla sua resa commerciale che sarà, invece, notevole) di un uomo orrendamente sfigurato, “il più grande aborto della natura” (Freddie Jones nel film).

Un film dentro il quale si fanno strada visioni impreviste, racconti depistanti, squarci di memoria gettati a tutto schermo, schegge davanti senza più terra d’origine. Strappate al “privato” di un unico individuo, sparpagliate ovunque. Mentre brividi lungo il corpo, si fanno spazio. Anche se non richiesti. La febbre sale. Nei momenti (inutile negarlo, sono quelli, impossibile nasconderli oltre, fare finta di superarli, di non vederli, ma soprattutto di non sentirli scorrere addosso e dentro d sé; sarebbe fin troppo schematico ricordare, prima a se stessi e poi agli altri, che “lì non ci casco”, che “riesco a trattenere le emozioni”) in cui Lynch abborda più da vicino lo spettatore, operando sul corpo del mélo: i versetti della Bibbia recitati a memoria da John, la lettura (nel libro aperto “a caso”) di un brano di Romeo e Giulietta, duettato – fra lettura e recitazione – dall’uomo con Anne Bancroft/attrice di teatro, la visita a casa di Hopkins/medico, il dialogo con la moglie di lui, le fotografie rivelate alla visione di John sulla parete del salotto. O ancora alcuni dialoghi decisamente sopra le righr, ad integrazione di scene madri disperse nel film.

The Elephant Man si ripresenta così. Con tutta la sua armonicità romantica. Con tutto il senso di opera finita e di corpo-vagante. Di film visionario e intrigante, intimista ed eccessivo. Favola ancora una volta noir, twin peaks con largo anticipo, selvaggio incontro dove “nessuno è perfetto”, film politico “sul” potere, sottile humor nello scheletro drammatico…Impulso per sempre attivato nel tic-tac della memoria.

 

Titolo originale: id.
Regia: David Lynch
Interpreti: John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Gielgud, Wendy Hiller, Freddie Jones
Durata: 124′
Origine: USA, 1980
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.11 (9 voti)
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