Anno | 2010 |
Genere | Documentario |
Produzione | Russia, USA |
Durata | 80 minuti |
Regia di | Tchavdar Georgiev, Amanda Pope |
Attori | Edward Asner, Ben Kingsley, Sally Field . |
Tag | Da vedere 2010 |
MYmonetro | 3,50 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 7 novembre 2014
Un museo nel deserto uzbeko che racchiude una storia fatta da quarantamila opere.
CONSIGLIATO SÌ
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Nei primi anni '50, sotto il regime sovietico di Stalin, Igor Stavinsky (1918-1984), aspirante pittore e figlio di una famiglia aristocratica di Kiev, si unisce alla spedizione archeologica nel Khozmet, sulla via della seta nel deserto dell'Asia Centrale, scoprendone l'arte locale. Tra il 1957 e il 1966 raccoglie metodicamente reperti, dipinti, tessuti, gioielli dell'arte uzbeka. Costruisce così negli anni una collezione che confluirà nel 1966 nel museo da lui fondato a Nukus, capitale del Karakalpakstan, remota repubblica indipendente all'interno dell'Uzbekistan. Un vero e proprio tesoro nel deserto, accumulato in almeno venti avventurosi viaggi da Mosca a Nukus, descritto da Stephen Kinzer del "New York Times", inviato nell'area dopo la caduta dell'URSS, nell'illustre inserto Art & Leisure. Gran parte della collezione è infatti costituita dalle opere di artisti sovietici a vario titolo perseguitati dal KGB e censurati dal regime staliniano negli anni '30 perché non allineati. Un collettivo riemerso grazie a Stavinsky e che ritrovò in quella particolare realtà rurale un'ispirazione simile a quella di Paul Gauguin in Polinesia. Un patrimonio da 50 anni racchiuso in un museo misconosciuto e senza finanziatori, minacciato dallo stretto contatto fisico con nazionalismi e islamismo radicale.
Narrato da una voice over (in originale di Ben Kingsley) che si rifà agli scritti di Stavinsky e alle dichiarazioni di chi lo conobbe, il documentario è affollato di eredi degli artisti (Mikhail Kurzin, Aleksandr Volkov, Yevgeny Lysenko, tra gli altri) e da esperti d'arte e testimoni. Come la direttrice del museo di Nukus, Marinika Babanazarova, custode di un'immensa eredità, calcolata in circa 40mila pezzi. Il focus però non è sul valore monetario e sull'appeal della collezione, quanto sulla natura paradossale di quest'oasi di libertà creativa permessa dalla difficile raggiungibilità e dalla lontananza da Mosca.
Con approccio non scolastico ma elegante i registi sfruttano al meglio le opere in oggetto, facendole interagire con quelle dell'arte di regime. La "politicità" dell'arte, quindi, e i motivi dell'emarginazione subita dagli artisti emergono da sé, tramite giustapposizione visiva, secondo la lezione del montaggio di scuola sovietica. L'incrocio particolarissimo tra cultura asiatica, russa e Islam è ricostruito grazie a un uso sapiente dei tanti materiali - archivio etnografico in b/n, film di propaganda sovietica, cinegiornali, fotografie. La narrazione romantica che delinea la figura dell'appassionato collezionista si fonde con il documento storico e l'appello alla salvaguardia di un'istituzione simbolo delle forzature dei poteri forti sulla creazione individuale.