The Adam Project Recensione

The Adam Project, la recensione del film Netflix con Ryan Reynolds

10 marzo 2022
3 di 5

Un Frankenstein dell'immaginario, chiaramente figlio dell'Algoritmo di Netflix, diretto a un pubblico giovane. Che però, quando mira alla risata, e ancora di più al cuore e all'emozione, funziona. Eccome. Recensione di Federico Gironi.

The Adam Project, la recensione del film Netflix con Ryan Reynolds

The Adam Project, lo sappiamo bene dalla sinossi ufficiale, è il film in cui Ryan Reynolds è un pilota che viaggia indietro nel tempo e con il sé stesso bambino e il padre deve cercare di salvare il pianeta e fare i conti col passato.
Il viaggio è quello che dal 2050, un 2050 in cui non solo il viaggio nel tempo è possibile, ma nel quale il mondo appare come "quello di Terminator solo nelle giornate tranquille", dice l'Adam di Reynolds, fa arrivare il protagonista nel 2022, dove incontra appunto il sé stesso dodicenne.
L'Adam dodicenne, che ha la lingua lunga e affilata come quella dell'Adam del 2050, come tutti i personaggi di Reynolds, vive in una bella casa ai margini di un bosco, ha l'asma e usa l'inalatore, è un ragazzino minuto e vittima costante del bullismo di un paio di compagni più grossi e più forti. E quando una sera, a casa da solo, s'imbatte in qualcosa di strano tra gli alberi attorno a casa, sarà l'ambiente, sarà il personaggio, sarà il modo in cui Shawn Levy riprende la scena, ma una sola cosa viene in mente allo spettatore: la parola Amblin.
Il fatto poi che Adam grande incontri Adam piccolo, e sua mamma, e poi i due Adam incontrino (nel 2018) il loro comune papà, che tra il 2018 e il 2022 era morto in un incidente d'auto, e che la trama di The Adam Project parli di linee temporali e interventi per cambiare il futuro dal passato, beh. Sappiamo tutti cosa porta alla mente.

Quindi. Amblin, dicevamo. E Terminator. E la saga di Ritorno al Futuro. Aggiungiamoci anche che molte scene, alcuni costumi, alcuni personaggi, alcune armi - non entro nei dettagli, sennò è spoiler - ne richiamano altre celebri di Star Wars. E anche che un paio di scene dove l'Adam grande, pilota provetto, spericolato e indisciplinato, vola col suo aereo (che poi è anche la sua macchina del tempo), sembrano citare in maniera decisamente esplicita Top Gun.
Potrei andare avanti, ma non sarebbe utile. Anzi, no. Mettiamoci anche che in mezzo a tutti questi riferimenti ce n'è anche uno, meno diretto ma evidente, a L'uomo dei sogni.
Cosa sto dicendo, quindi? Sto dicendo che The Adam Project è derivativo, che pare un sapiente assemblaggio di materiali cinematografici preesistenti, che è una sorta di Frankenstein dell'immaginario, e che ha pochissimo dentro di originale, e che quel poco di originale conta poco?
Sì, sto dicendo esattamente questo. Ma dicendo questo non sto dicendo che The Adam Project non funzioni, che non assolva alla sua funzione, che non garantisca intrattenimento in prima battuta e qualche emozione un pochino più profonda in seconda.
Insomma, Frankenstein sì, ma simpatico. E funzionale.

Certo, c'è qualcosa di vagamente plastico, e di artificioso, nel film di Levy. Soprattutto quando si concentra di più sul suo aspetto action, su certi rivolti blandamente thrilling, The Adam Project è veramente il prototipo del prodotto standard di Netflix, diventa privo di particolare spessore cinematografico e tradisce la sua vera natura, quella di oggetto funzionale a una distratta visione casalinga. E però, è innegabile che ci sia una solidità anche in quello.
Lì dove The Adam Project colpisce nel segno, e diventa accattivante, e perfino un po' coinvolgente è altrove.
Innegabile che i battibecchi tra l'Adam grande e l'Adam piccolo siano assai divertenti, anche per merito del giovane Walter Scobell, e che in generale quando Ryan Reynolds fa Ryan Reynolds (che è un'altra cosa rispetto al recitare, su questo siamo tutti d'accordo, o almeno lo spero) qualche sorriso lo strappa. Anche qualche risatina.
È però, magari in maniera inaspettata, The Adam Project funziona quando oltre che allo spettacolo, allo stupore o alla risata, mira al sentimento. Amblin, vi ricordate? L'uomo dei sogni, vi ricordate?

Sarà che sono padre, e sono figlio, ma tutto il materiale emotivo che viene smosso nel rapporto tra Adam e i suoi genitori, con la madre cui ne aveva fatte passare di tutti i colori, e con un padre morto troppo presto, e pure col sé stesso piccolo beh: a tratti riesce a commuovere.
E il ragionamento sul sarcasmo e la noncuranza e perfino la rabbia come coperture, spesso poco utili, per la sensibilità e il dolore e la mancanza, non è affatto scemo.
Anche in questo caso, va detto, tutto è molto studiato, probabilmente figlio dell'Algoritmo (e, guarda un po', proprio di un algoritmo si parla, verso la fine del film), ma è indubbio che l'emozione arrivi lo stesso. In una forma e con una modalità, poi, che è più pura e meno ricattatoria di altro cinema considerato più altro e nobile di questo, che è un prodotto puramente commerciale, mirato al pubblico giovane, e non fa nulla, grazie al cielo, per nasconderlo.
Tanto per capirici: uscito dal cinema, io, ho pensato che lo avrei rivisto con le mie figlie, questo film.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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