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8.0

Il 16 aprile del 1990 Andy Wood, voce dei Mother Love Bone e astro nascente della scena musicale di Seattle, viene trovato riverso sul letto di casa dopo essersi iniettato l’ultima dose di eroina. La corsa in ospedale e i tentativi di rianimarlo non serviranno a nulla: “Landrew the Love Child” muore tre giorni dopo senza aver mai ripreso conoscenza. Prima di staccare le macchine che lo tengono in vita e lasciarlo andare, familiari e amici lo salutano per l’ultima volta con uno dei suoi dischi preferiti in sottofondo (A Night at the Opera dei Queen). Questo drammatico momento è ricordato da Chris Cornell nel documentario Pearl Jam 20 come “la perdita dell’innocenza” per tutta la scena.

Wood era a un passo dal diventare ciò che aveva sognato di essere fin da bambino: una rockstar. Con l’album Apple già pronto per l’uscita non era difficile pronosticare il successo per i Mother Love Bone. Avrebbero potuto tranquillamente essere la terza via ideale tra i Guns & Roses e i Jane’s Addiction. Avevano il suono giusto – un hard rock fantasioso, pimpante e melodico – per inserirsi tra i due colossi di Los Angeles, e potevano cantare su un frontman carismatico e spettacolare. Oggi forse parleremmo della loro miscela di Led Zeppelin, Kiss, Aerosmith con il tipico background hard rock anni ’70 colorato di una curiosa patina glam e di sfumature più alternative – basso post-punk, swing deciso tendente al funky e un certo misticismo psichedelico – come della prima forma di “grunge” diventata realmente popolare. Non è andata così, perché la tragedia era purtroppo dietro l’angolo.

Questo lungo preambolo è indispensabile per inquadrare lo spirito del “supergruppo” Temple of the Dog, spontaneo tributo a un amico, palestra per il suono di un complesso ancora in costruzione e pezzo più unico che raro nella collezione dei dischi usciti dalla Seattle che nel giro di qualche mese sarebbe diventata la città simbolo del nuovo rock. Wood non era soltanto un animatore della scena già dai tempi dei Malfunkshun, o il compagno di band dei futuri Pearl Jam Jeff Ament e Stone Gossard, ma anche un grande amico di Chris Cornell. Che, alle prese con un tour dei Soundgarden di cui dirà “è stato un incubo”, sfoga il suo dolore scrivendo due canzoni che parlano di Andy: Say Hello 2 Heaven e Reach Down. I brani non si accordano tanto allo stile dei Soundgarden, così Chris li fa ascoltare a Stone Gossard, che ne è subito entusiasta. Stone intanto, dopo essersi ripreso dalla morte di Andy e dalla fine dei Mother Love Bone, ha incominciato a provare con Mike McCready e Jeff Ament; il nucleo di quelli che diventeranno i Pearl Jam. Nel demo tape fatto di pezzi strumentali mandato in giro in cerca del futuro cantante, dietro i tamburi c’è… guarda un po’, Matt Cameron dei Soundgarden…

È così, insomma, che da un paio di canzoni scritte da Cornell nasce un progetto più strutturato e dall’idea di un singolo si arriva a un album intero, pubblicato dalla A&M (etichetta dei Soungarden) il 16 aprile del 1991. Un album che dopo il successo dei Pearl Jam, nel 1992, diventerà il Blind Faith degli anni ’90, uno dei classici dell’era di Seattle. Un classico “atipico”, visto che di “grunge” in senso stretto (sempre che un senso stretto ci sia) c’è poco, o almeno non è il Seattle sound a cui siamo abituati. È un approccio “laterale” a quello dei Soundgarden e che va oltre lo stile dei Mother Love Bone: la pietra angolare sono il soul-rock psichedelico del brano di apertura e l’hard rock solido, acido e teatrale di Reach Down, che però a un certo punto svolta e diventa una blues jam di dieci minuti.

Un suono che in parte sfocia in quello dei Pearl Jam di là da venire, visto che il produttore Rick Parashar sarà lo stesso di Ten – e si avverte un po’ della stessa patina “classic” –; un rock-blues epico, solenne, pure elegante, con venature morbide, acustiche – vedi Times of Trouble e Wooden Jesus – e, la cosa più piacevole a dirsi, a tinte inusualmente black. Davvero è uno dei dischi più “neri” del grunge di Seattle (gli Afghan Whigs sono di Cincinnati…), anche se rispetto ai Satchel o ai Brad (che tra parentesi sono un’altra creatura di Stone Gossard) mantiene comunque l’impronta hard tra Zeppelin, Cream, Hendrix e Free. C’è però una bella e calda vibrazione soul lunga quasi tutto il disco, che dagli accenti gospeleggianti di Say Hello 2 Heaven arriva all’r&b jazzato e melodico di All Night Thing – dove non c’è traccia di chitarra distorta o di batteria pestata – e si inerpica anche dentro lo shouting di Cornell in Call Me A Dog (una prestazione da soulrocker bianco fin lì inedita per le sue corde di titano dark-punk-metal). A cui si aggiunge pure una nervosa – e, nonostante tutto, sinuosa – funkyness, a sorreggere e scandire i momenti pure più “duri” di Pushing Forward Back e Your Saviour.

Fa storia a sé il brano più famoso, Hunger Strike, l’unico con due voci soliste: accanto a Cornell entra in campo Eddie Vedder, l’”outsider” appena arrivato da San Diego che qui si mostra già pronto a prendersi il microfono e la scena. Vedder e Cornell sembrano ora rincorrersi e ora prendersi per mano, si sdoppiano le parti (speculari), e giocano a rimpiattino tra le discese e le risalite di un piccolo gioiello di arrangiamento che ci spiega come da un’idea semplice come un giro di chitarra arpeggiato si possa costruire un climax da pelle d’oca.

Dalla riedizione celebrativa del 2016 tra nuovi mixaggi e un campionario di versioni inedite (che guardano i vecchi pezzi da punti di vista lievemente sfalsati, permettendo di coglierne alcune sfumature – senza però nulla che metta in discussione la superiorità dei brani definitivi), spuntavano a sorpresa anche due inediti, Angel of Fire – forse la più Mother Love Bone, soprattutto, strano a dirsi, per la voce di Cornell che a tratti somiglia a quella di Wood – e il bluesaccio di Black Cat. Due episodi mai andati oltre – presumiamo – lo stadio di demo: in fondo si capisce il motivo, perché pur non essendo disprezzabili non sono all’altezza del resto. Meglio insomma concentrarsi sulle dieci canzoni che hanno trovato la via dell’album; un disco che si esauriva storicamente in se stesso e nella sua strana e irripetibile magia, in cui freschezza, libertà musicale e respiro “classico” si fondono però a meraviglia, oltre i cliché e anche oltre il muro del tempo…

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