Molti film, quasi tutti, sono frutto della pianificazione e dell’esecuzione di un lavoro che in ultima analisi attribuiamo al regista, non perché faccia tutto lui (anzi, in teoria non fa nulla) ma perché supervisiona tutto e indirizza gli sforzi di attori, montatori, costumisti, scenografi, musicisti e via dicendo in una direzione, in modo che siano coordinati e creino quello che vediamo. Nei casi migliori anche quello che intuiamo. Per Tár non ci sono dubbi che il regista Todd Field faccia un lavoro eccezionale di perfezione e cura di tutti i comparti (si guardi con che coerenza sceglie quegli ambienti immensi, moderni e architettonicamente pieni di carattere per contenere poche persone, isolate), ma qui è proprio Cate Blanchett, molto più della sceneggiatura, a creare il personaggio che dà il nome e un senso ultimo al film.

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Tár è la storia di Lydia Tár, direttrice d’orchestra potentissima. Tutto l’attacco del film è un momento di bravura di Cate Blanchett teso a spiegarci questo. Siamo introdotti alla storia proprio da lei, intervistata su un palco, e dalla sua incredibile capacità di accattivare il pubblico (noi) parlando di temi altissimi. Non è tanto ciò che dice, sono discorsi che passano sopra la testa di molti, soprattutto di chi non è appassionato di musica classica, ma come lo dice. È la capacità di Cate Blanchett di creare un personaggio a partire dall’eloquio, da come si muove e dalla calma, eleganza e fermezza durissima con le quali cerca di farsi benvolere su un palco parlando di sé. Ciò che non sarebbe interessante in bocca a chiunque altro, passato attraverso una recitazione che suggerisce più di quello che non è scritto in sceneggiatura, diventa una calamita.

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Sulla storia di questo personaggio potente ognuno potrà farsi la propria idea, ma per chiunque creerà dei dubbi invece di regalare morali, sentenze o certezze. È una storia contemporanea di cancel culture. Lydia Tár infatti è un genio della classica ma anche una persona che viene dal vecchio mondo, con abitudini sessualmente predatorie che oggi non sono più tollerate. Capiamo quasi subito che nonostante abbia una moglie e una bambina ha anche avuto altre donne nel passato, donne più giovani che ha sfruttato (sessualmente), a cui ha promesso molto e dato solo in parte e che adesso si vogliono vendicare. Capiamo che ha una segretaria personale che scalpita, che non esita a far fuori chi pensa possa mettersi tra lei e l’eccellenza e che non sopporta tutto quello che limita il suo esercizio arbitrario del potere (come le audizioni al buio).

Soprattutto in una delle sequenze cruciali, durante una lezione alla Julliard, umilia davanti agli altri studenti un ragazzo che afferma di non voler studiare Bach perché era un misogino. È la classica sequenza che, come tutto il film, può essere letta in due maniere diverse, a seconda delle inclinazioni. Può essere sia la rivendicazione da parte di un genio della musica del valore di un colosso come Bach, ma anche la brutalizzazione di uno studente solo per le sue idee. E anche un arroccarsi su posizioni indiscutibili rifiutando il mutamento dei tempi e l’apertura anche a nuovi studi e nuovi autori.

Lydia Tár comincerà a essere perseguitata e il mondo intorno a lei inizierà a crollare, fino alla sua cancellazione. A quel punto il film, fino ad ora rigoroso e per certi versi algido, si apre a un altro stile. Dopo un incidente, il film si fa più onirico e delirante. Dal rigore si passa a piccole, grandi concessioni al romanzesco. Sembra insomma di non stare guardando più la vita di Lydia Tár ma forse un suo sogno o forse quel che le è successo dopo la morte. Non è mai spiegato, non è chiaro. Tár racconta una delle molte storie cruciali dei nostri anni da vicino, fa vivere a tutti il senso di potenza e soddisfazione di una vera artista al massimo della forma e dell’ambizione, per poi levarle tutto di colpo (e per la proprietà transitiva anche a noi) per questioni di etica e morale che lei non condivide.

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È degno di dibattito se il film sia dalla parte di Lydia Tár o se pensi che quel che le accade sia meritato, se trovi abominevole la cancel culture oppure se trovi peggiore l’atteggiamento di figure come Lydia. Questo è il suo merito principale, ciò che gli vale la grandezza: la sua capacità di non regalare risposte ma fare qualcosa di più difficile, cioè stimolare ragionamenti. Spoiler: la verità come sempre sta nel mezzo, Todd Field trova abominevoli entrambe le cose e ha una posizione di mezzo, sta a noi farci la nostra idea ed essere costretti a mettere in dubbio le nostre convinzioni, grazie alle argomentazioni del film. Intanto Cate Blanchett con la sua postura altera, la sua forza (a un certo punto minaccia un bambino e sembra pronta a ucciderlo) e la sua capacità di suggerire più di quello che sta dicendo o facendo, sembra avere anche lei la sua idea su questo personaggio.

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Gabriele Niola

Nasce a Roma nel 1981, fatica a vivere fino a che non inizia a fare il critico nell'epoca d'oro dei blog. Inizia a lavorare pagato sul finire degli anni '00 e alterna critica a giornalismo da freelance per diverse testate. Dal 2009 al 2012 è stato selezionatore della sezione Extra della Festa del cinema di Roma, poi programmatore e per un anno anche co-direttore del Festival di Taormina. Dal 2015 è corrispondente dall'Italia per la testata britannica Screen International.  È docente del master di critica giornalistica dell'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico, ha pubblicato con UTET un libro intervista a Gabriele Muccino intitolato La vita addosso e con Bietti un pamphlet dal titolo "Odio il cinema italiano". Vanta innumerevoli minacce da alcuni dei più titolati registi italiani.     
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