STO PENSANDO DI FINIRLA QUI - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Netflix, Recensione

STO PENSANDO DI FINIRLA QUI

Titolo OriginaleI'm Thinking of Ending Things
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2020
Durata134’
Sceneggiatura
Trattodal romanzo di Iain Reid
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

In viaggio dai genitori di lui qualcosa va storto, ma fidanzato, famiglia e realtà frammentata non c’entrano nulla.

RECENSIONI

Ognuno di noi segue un programma.
Il protocollo invisibile che totalizza e delinea il percorso della nostra esistenza può portare il sigillo dei condizionamenti familiari, oppure del trauma di un fallimento; o magari si configura, più semplicemente, nell’incapacità di comprensione profonda dei meccanismi attraverso i quali la mente riproduce sé stessa e gli eventi del reale, replicando all’infinito strutture limitanti e gabbie esistenziali che, poco a poco, assumono le sembianze materiali delle devastanti prigioni del quotidiano.
Charlie Kaufman si muove da sempre in quella frangia ambigua e incerta situata all’intersezione fra universo mentale/animico e manifestazione fenomenica di esso, indagando proprio l’interno di quel decisivo punto di squilibrio che separa il desiderio dall’impotenza, lo stato di veglia dal sogno, lo spazio del reale dal regno interiore.
La struttura di Sto pensando di finirla qui adopera e al tempo stesso falsifica le dicotomie descritte poc’anzi, creando nello spettatore l’illusione di una dualità in realtà inesistente: due sembrano i binari narrativi presenti nel film (il viaggio dei due protagonisti e il falso parallelo della vicenda dell’anziano custode), così come due ci appaiono i piani che muovono l’azione (il chiacchiericcio mentale del personaggio femminile da una parte, le interazioni fisiche dall’altra) e, in relazione a questo aspetto, sembra proprio essere il rapporto dialettico tra dolorosa realtà e melanconica immaginazione l’elemento centrale dell’opera.
L’aspetto però più importante che caratterizza la falsa dualità si dipana con lentezza nel corso dell’intero film, e si traduce nella consapevolezza che lo spettatore realizza progressivamente rispetto al carattere di sovrapponibilità dei due personaggi principali. Infatti, se in un primo momento essi ci appaiono come individui ben distinti e, poco più avanti, come anime allo specchio, nella parte finale la fusione di entrambi in un’unica figura realizza il trionfo della pluri-dimensionalità del racconto e, di riflesso, porta a compimento quella pratica di compressione dello spazio/tempo tanto cara a Kaufman, processo che in quest’opera si configura nella scelta di due (ancora) luoghi elettivi: la casa di famiglia e la scuola.

Il buco nero che inghiotte la micro-cronaca famigliare di Jake, storia compressa in un sincronico non-tempo che abbraccia lo spazio di un’intera vita, si inscrive nelle mura domestiche che ci vengono mostrate, in una serie di quadri in dissolvenza incrociata, fin dall’inizio del film. Autentica materia pensante che riverbera proiezioni di conflitti e dolori non risolti, la fattoria di Jake (Jesse Plemons) è il controcanto oscuro delle aule e dei corridoi del liceo attraversati da quest’ultimo nella dimensione “parallela”, luoghi entro cui si manifestano fantasmi di desideri repressi e evocazioni di sogni irrealizzati. All’interno della casa di famiglia, i genitori di Jake (interpretati da Toni Collette e David Thewlis) ci vengono mostrati come figure immobili attraversate e dilaniate dal tempo, ritratti speculari profetici del destino del protagonista il quale, avendo deciso di prendersi cura di loro fino alla morte e restando fedele alla narrazione infantile costruita intorno a lui dalla madre (ragazzo molto “diligente” ma poco brillante), non potrà vedere realizzate le proprie aspirazioni.
Kaufman sceglie di adottare una cantrice femminile dai molteplici nomi (contenitore vuoto e mutevole) per marcare i passaggi emotivi e temporali vissuti da Jake: nello spazio domestico, l’utilizzo di un’illuminazione dinamica che stravolge in continuazione la scena, nonché il lavoro sui differenti costumi e sui dettagli cromatici del vestito del personaggio (come accade in modo meno eclatante già in automobile, nelle scene in interno i colori del maglione indossato da Jessie Buckley variano insistentemente) restituiscono l’idea dello spazio scenico come superficie riflettente e del corpo come figura ideale nella quale convergono tutte le vicende amorose possibili (immaginate? Realmente vissute?), rappresentazione immateriale che, nel pre-finale, può essere perfino sostituita dall’ennesima proiezione di Jake (l’altra donna che si manifesta durante il viaggio di ritorno).


Dalla parte opposta, come si accennava, abbiamo il teatro dell’immaginario compresso tra le mura della scuola: al di la delle propaggini e dei riverberi del musical Oklahoma! disseminati per tutto il film (alla radio, in teatro, nelle danze sognate nei corridoi dell’edificio), autentici specchi di un eros soffocato e irrimediabilmente perduto, assume particolare rilievo la scena nella quale l’inserviente guarda un film in dvd, film il cui protagonista maschile si chiama Nimrod, lo stesso nome del personaggio biblico presente nel libro della Genesi che, ribellandosi alla volontà di Dio, edificò il proprio regno e ricordato, prevalentemente, per la costruzione della celebre Torre di Babele (ancora una volta, risulta evidente come il rimpianto per una vita non vissuta sia lo specchio della frustrazione portata all’estremo nelle ultime ore del protagonista).

In sostanza, la grandezza di Sto pensando di finirla qui si rivela nella pratica strutturale e formale appena argomentata: a partire da un piano di realtà ben riconoscibile e radicato nell’esperienza dello spettatore (l’universo duale e i piani conflittuali che esso include in sé stesso), Charlie Kaufman moltiplica progressivamente, fino alla distruzione delle premesse “dialettiche” iniziali, le creature del multi-verso mentale del personaggio, giungendo all’espansione estrema di quel macrocosmo psichico che, nella sua inequivocabile autenticità, ha di fatto prodotto il microcosmo del reale nel quale l’individuo resta imprigionato. È il mondo interiore, per Kaufman, il solo motore di ciò che accade intorno all’essere umano. Del resto, è proprio in una frase che udiamo all’inizio che rinveniamo lo spirito dell’opera: “non puoi fingere un pensiero”.