Steven Soderbergh - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Monografia

Steven Soderbergh

BIO/POETICA

A Cura di: Niccolò Rangoni Machiavelli

Soderbergh nasce in Georgia il 20 settembre del 1963 e cresce a Baton Rouge, Louisiana. Il padre, Peter Andrews Soderbergh, insegna al “College of Education” della Louisiana State University, la stessa dove il tredicenne Steven seguirà il suo primo corso di cinema. Gira molti super 8, fra cui il cortometraggio JANITOR, ma inizia la carriera professionale vera e propria a Los Angeles nel 1980, come freelance del montaggio, soprattutto per show televisivi. Lo rinchiudevano in una stanza e gli fornivano un format di base che, tagliuzzato e manipolato a dovere, doveva formare un nuovo “show”. Si occupava anche di riedizioni di documentari e concerti. E’ stato questo il nucleo/officina di tante idee future di Soderbergh, un manipolatore con la libertà e il potere di ricostruire la “realtà fittizia”.

Impadronitosi definitivamente della tecnica del mestiere girando video musicali e spot per delle piccole emittenti televisive locali, torna a Baton Rouge, dove continua a sfornare cortometraggi, fra cui quel WINSTON che espanderà nel suo lungometraggio d’esordio. Fra gli altri suoi lavori, un documentario sugli Yes che attirerà su di lui l’attenzione del noto gruppo musicale, portandolo a filmare il loro concerto (9012LIVE), nominato nel 1986 ai Grammy.

Per altri due anni scrive sceneggiature, fra cui quella di SESSO, BUGIE E VIDEOTAPE, che comincia a filmare nell’estate del 1988. La prima del film si tiene al Sundance Film Festival nel gennaio del 1989 e, quattro mesi dopo, la pellicola vince la Palma d’oro a Cannes (facendo di Soderbergh il più giovane regista ad averla mai vinta). Lo stesso anno Soderbergh sposa l’attrice Betsy Brantley, da cui avrà una figlia (nel 1990) ed in seguito il divorzio.

Il grande successo del film d’esordio pone Soderbergh in una posizione scomoda: incoronato come alfiere dell’indie, è ignorato nel momento in cui disattende le aspettative con la magniloquente e ricercata opera successiva, DELITTI E SEGRETI (1991), che combina liberamente elementi della biografia di Kafka e finzione, con brani barocchi ed un gustoso humour dell’assurdo. Non piaceva allo studio che lo finanziò e fu accolto in un’atmosfera generale di freddezza. Stessa sorte tocca alle opere successive: IL PICCOLO GRANDE AARON (1993) e TORBIDE OSSESSIONI(1995).

Nel 1993 Soderbergh vara una carriera parallela nella produzione di autori indipendenti e firma due episodi della serie tv “noir” Fallen Angels per Sidney PollackNel 1996 si occupa di una riduzione teatrale (“Geniuses” di Jonathan Reynolds), filma due opere sperimentali sull’idiosincrasia (il monologo di Spalding Gray in GRAY’S ANATOMY SCHIZOPOLIS) e produce PLEASANTVILLE di Gary Ross.

Solo nel 1998, con OUT OF SIGHT, primo film su commissione ad alto budget nella sua carriera, Soderbergh torna nelle grazie di critica e pubblico, e tutte le opere successive, alternando progetti indipendenti e mainstream, ricevono un’adeguata attenzione. Nel 2001 riesce addirittura ad ottenere due nomination agli Oscar per la miglior regia (ERIN BROCKOVICH e TRAFFIC), vincendo quello per quest’ultimo.

Creato un fecondo sodalizio artistico e produttivo (fondano insieme la Section Eight Productions nel 2000) con la star George Clooney, nel 2002 produce l’esordio registico di quest’ultimo e lo coinvolge nel rifacimento della fantascienza mistica di SOLARIS di Tarkovskij. Insieme, s’arrischiano a creare e/o incentivare prodotti indipendenti, controcorrente e sperimentali, alternandoli a opere di cassetta (come OCEAN’S ELEVEN) con cui poter finanziare i progetti arditi come la serie televisiva politica “K Street”, mix di fiction e documentario, cinema e stilemi da piccolo schermo; o l’opera che riporta Soderbergh nel cinema più orgogliosamente indipendente e minimalista, BUBBLE, opera “improvvisata” come l’altrettanto arrischiata serie televisiva “Unscripted”, vale a dire “Senza scrittura”.

Soderbergh ha pubblicato due libri, “Sex, lies, and videotape” (1990) e “Getting away with it” (1996). Il primo dettaglia la lavorazione del film, seguendo l’evolversi della sceneggiatura e rivelando il peso avuto dall’improvvisazione ed i vari ripensamenti. Il secondo (il cui sottotitolo recita: “O le nuove avventure del bastardo più fortunato che abbiate mai conosciuto, con Richard Lester nel ruolo dell’uomo che sapeva di più di quanto gli chiedessero”) raccoglie alcune annotazioni sui “making of” dei suoi film e un’intervista con Richard Lester (A HARD DAY’S NIGHT, COME HO VINTO LA GUERRA, PETULIA, I TRE MOSCHETTIERI, due SUPERMAN e ROBIN E MARIAN), che rivela l’influenza del regista inglese sulla sua formazione. Originali, e tipiche di un autore poco convenzionale, le note a piè pagina che non esplicano il testo, ma lo contrappuntano, anche in sarcastica polemica. In “Getting away with it”, l’autore parla dei fallimenti nella carriera e nella vita privata, spesso a cuore aperto, con un’umile autoironia che contraddice la diffusa credenza che lo ritrae come una persona boriosa e autocompiaciuta.

L’autobiografico SCHIZOPOLIS è il film che l’ha intimamente rigenerato dopo l’esperienza poco gratificante di TORBIDE OSSESSIONI. Quest’ultimo, dice, “E’ stato, tuttavia, il film più importante che ho mai fatto. Su quel set ho preso coscienza d’avere perso il senso del mio cammino artistico, ho scoperto che era necessario tornare sui miei passi, ai primi, personali cortometraggi girati a casa, con pochi amici”. E’ così che vede la luce il progetto di SCHIZOPOLIS, un’opera con cui si è rimesso in discussione, acquisendo quel distacco necessario per affrontare con maggiore disinvoltura il proprio mestiere.

Soderbergh ha iniziato come montatore e non ha mai smesso di utilizzare il montaggio per manipolare il tempo, per farlo scomparire in ellissi narrative, per raddoppiarlo con il montaggio parallelo, per dilatarlo allungando l’azione, per impregnarlo con la speranza e la memoria inserendo eventi anticipati ed immaginati. Con esso fraziona il tempo, monta e smonta le storie con un uso elaborato dei flashback e di labirintici piani narrativi: caos e follia sono dominati con un’intellettualistica razionalità. Non è casuale che in “Getting away with it” intervisti proprio Richard Lester, che aveva fatto un lavoro simile con PETULIA. Soderbergh (che dice di amare molto anche Wim Wenders, Martin Scorsese, François Truffaut, David Lynch, Peter Weir e Stephen Frears), in realtà, rimarca sempre la grande influenza avuta su di lui da Alain Resnais (rallentamenti, interruzioni e ritorni), da opere come HIROSHIMA MON AMOUR e L’ANNO SCORSO A MARIENBAD, film che ha tenuto presente girando L’INGLESE (“E’ come se Resnais girasse CARTER!”).

E’ un cineasta che spiazza per il suo eclettismo, in quanto ridefinisce continuamente il proprio lavoro, sfuggendo alle definizioni e alle logiche autorali. Gli anni successivi al grande successo del suo esordio li ha passati cercando di rinnegare quel “movimento” dei film indipendenti americani in cui lo avevano costretto, nascondendo le proprie doti dietro una sorta di camaleontismo stilistico in cui ogni prova sembrava contraddire quella precedente: alla sinuosa leggerezza di SESSO, BUGIE E VIDEOTAPE hanno fatto seguito il claustrofobico espressionismo gigantista di DELITTI E SEGRETI, i toni colorati e nostalgici del PICCOLO GRANDE AARON, il fatalismo in noir di TORBIDE OSSESSIONI e così via. Rinnova il proprio linguaggio e la propria tecnica, sperimentando in modo originale generi, stili, soggetti:dalle atmosfere malate e perverse ai generi più divertiti, dall’intellettualismo (anche demenziale) godardiano ai caratteri e sentimenti rohmeriani, dalla complessità d’autore alle tracce cinefile di genere.

Soderbergh porta sempre avanti il concetto di un “lupo solitario” (l’epiteto dato da Alec Guinness al Kafka di DELITTI SEGRETI) che, attraverso la penetrazione dolorosa fra le nebbie dell’inganno (Kafka penetra nel castello sulla collina, Terence Stamp, ne L’INGLESE, s’intrufola nel rifugio di Peter Fonda) tenta, spesso invano, di ricostruire una propria sfera affettiva (le famiglie sfaldate di PICCOLO GRANDE AARONSCHIZOPOLIS e L’INGLESE) per rompere l’isolamento in cui si trova. I suoi protagonisti, immersi in memorie ambigue, percezioni parziali, false assunzioni, s’imbattono in sprazzi di verità, ne colgono un attimo nel continuum spazio/temporale (che Soderbergh, appositamente, frantuma) e manifestano un disperato bisogno di porsi in relazione, a livello sentimentale (SESSO, BUGIE E VIDEOTAPETRAFFIC) o erotico (OUT OF SIGHT). Con queste premesse, è evidente la non casualità del rifacimento (a modo suo) del  SOLARIS di Tarkovskij.

L’autore trascura l’intrigo per le atmosfere, le suggestioni, una compiaciuta patina formale sotto la quale giacciono simbolismi, messaggi subliminalispaesanti ed ambigui, riflessioni ed emozioni suggerite piuttosto che urlate nell’apparente freddezza di tono. Spesso trasfigura col sesso puro una vita malsana ed ipocrita, con le sue crisi d’identità, esistenziali e dei sentimenti: la tecnologia e i media, sostituiscono i veri rapporti e i personaggi “amorali” (lo sono per Soderbergh soprattutto quando “peccano”, tradiscono nei rapporti affettivi) pagheranno il fio. Ama i “doppi”, i finali aperti, la verbosità che dimostri la futilità del verbo.

TORBIDE OSSESSIONI, OUT OF SIGHT, ERIN BROCKOVICH, TRAFFIC e OCEAN’S ELEVEN sono film di genere in cui il senso intimo di ribellione ai canoni inverte una prassi: il regista indipendente, cioè, si ribella contro il modo di filmare da indipendenti, contro il concetto corrente d’integrità artistica, intesa come pratica “personale”, “confessionale”, “eccentrica”, “reiterata”, “impegnata socialmente”. Per distinguersi dalla miriade di nuovi autori che si sentono in obbligo di confrontarsi con Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni, Soderbergh ha scelto consapevolmente di usare ed essere usato da Hollywood (cast di stelle, soldi per la promozione, tracce di genere), di trovare rifugio nelle formule impersonali di codici linguistici che sviscera brillantemente e sposa pedissequamente, nascondendo la propria arte alla prima vista, relegandola in significative piccole rivoluzioni estetiche e compositive. Un gioco pericoloso in cui si confondono emulazione, simulazione e anonimia: a volte si scontra e non incontra i propri miti cinefili, li ripropone in un labirinto semantico che finge di fingere la leggerezza e l’improvvisazione, spavaldo ma intellettualistico, sperimentale ma accademico, moderno ma in ritardo. Nel suo ufficio di Burbank giganteggiano le locandine di LES CARABINIERS e BANDE A PART di Jean-Luc Godard, l’autore che sopra ogni altro ama e considera una continua fonte di ispirazione: ma perché non divertirsi anche a fare l’Aldrich, il Siegel, il Lester e persino Tarkovskij? Attraverso i personaggi di finzione, comunica allo spettatore più attento le ragioni di tale opzione: è come Erin Brockovich, una personalità forte ed intraprendente con la sufficiente umiltà per rinunciare a mostrare se stesso quando in gioco ci sono dei moti umani. Non sta né con Stamp (spinta rivoluzionaria) né con il Fonda (simbolo del mercato) de L’INGLESE, rivendica una posizione meno radicale. Potrebbe identificarsi con il Benicio Del Toro di TRAFFIC, che si sporca le mani ma raggiunge la meta desiderata. Nelle opere più personali si perde nell’autocompiacimento intellettualistico, come a riprendere ossigeno e contraddire la posizione presa precedentemente. Coerente incoerenza. L’arte di Soderbergh si manifesta nel modo in cui spezza e riassembla gli ingredienti tradizionali, restituendo la materia in modo straniato, colorito, personale (lo fa anche con il proprio cinema: vedere come ha ribaltato certi stilemi di OCEAN’S ELEVEN e OCEAN’S TWELVE). I cliché dei film di genere sono mezzo e non fine per sperimentare il linguaggio all’interno della fiction e per veicolare messaggi politico/etici affatto banali. Conquistata l’attenzione del pubblico grazie ad una direzione puntuale delle recitazioni, c’è spazio anche per qualche preziosismo tecnico/espressivo.