Con Wim Wenders, Pedro Almodovar e Wang Bing, tra gli Special Screenings di questa edizione del Festival di Cannes spicca sicuramente il ritorno di Steve McQueen con Occupied City. Non in concorso, come si erano promessi con Thierry Fremaux – e come il filmmaker inglese ha raccontato dal palco della sala Debussy – e a quindici anni dall’Hunger (Caméra d’or nel 2008), questo documentario si connota come un film molto personale per il regista, che da tempo ha eletto a sua città d’adozione proprio Amsterdam, dove tutto si svolge e della quale ci viene ricordato il doloroso passato mentre la vediamo aprirsi nuovamente alla vita e al futuro.
Dalla Guerra ai nazisti a quella contro il Covid
Basandosi sul libro Atlas of an Occupied City (Amsterdam 1940-1945) scritto da Bianca Stigter, McQueen sviluppa due ritratti che si intrecciano per tutta la durata del film. All’elenco di location, caratterizzate da un collegamento al tempo dell’occupazione della città da parte dei nazisti, si alternano le immagini degli ultimi anni di pandemia e protesta.
Da un lato scuole, strade, canali, uffici, ospedali e parchi, dall’altro i nomi delle vittime e dei collaborazionisti che ancora oggi restano testimoni silenziosi di un orrore evitabile. A differenza di quello, che non necessità dell’accompagnamento della voce narrante di Melanie Hyams, che tutti abbiamo più fresco nella memoria, e che bastano i pochi dettagli colti dalla macchina da presa a ricordare.
Un interminabile memento mori pieno di speranza
Operazione inusuale e a suo modo originale, quella del regista, che aspettavamo dal Widows – Eredità criminale del 2018 e che, nel frattempo, ci aveva regalato la miniserie BBC One Small Axe e poco altro. Un porta a porta interminabile, quasi ipnotico nella sua prolissità, ma che riesce a trasmettere la sensazione di “vivere tra i fantasmi” che lo stesso McQueen racconta nel presentarlo. E la possibilità di “due o tre narrazioni parallele“, e contemporanee, a saperle ascoltare.
Tra meditazione sulla memoria e riflessione sulla brutalità insita nella natura umana si scopre una Amsterdam diversa, che molti faticheranno a riconoscere, o faranno finta di non vedere. Nonostante la decisione di non servirsi di immagini d’archivio – mai, in 36 ore di riprese (poi ridotte a 4) – per dare maggior forza, e vicinanza, alle storie messe in scena, e sottolineare la commistione di passato e presente.
Non c’è pietismo nella descrizione di tradimenti, omicidi, atti di eroismo e suicidi, ma paradossalmente sembrano più accusatorie le sequenze scelte per mostrare i lunghi mesi di quarantena, di misure d’emergenza, le mascherine, il distanziamento che tutti conosciamo e il crescente nazionalismo di estrema destra. Quella di McQueen è una cronaca più che un monito, ma come ogni documentario sceglie un percorso, e una posizione, più o meno esplicita.