C’è qualcosa che abita al cuore di Rapito di Marco Bellocchio e non è solo il sequestro di un bambino ebreo, sottratto alla sua famiglia nella Bologna del 1858, quando una norma del codice ecclesiastico dello Stato Pontificio imponeva che un bambino battezzato – anche se all’insaputa di entrambi i genitori – dovesse comunque crescere in un contesto cattolico.

C’è qualcosa che è all’origine dell’atto e che nella sua indeterminatezza manifesta la base anarchica dell’imporsi di un potere. Ed è il battesimo stesso, che non si capisce bene se ci sia stato e in che forma. Ma soprattutto un battesimo che, nato dalla superstizione di una domestica che vedendo il bambino malato decide di battezzarlo per evitargli il “limbo”, non si è mai manifestato come atto pubblico, ma ha visto la coincidenza nell’esecuzione del rito di officiante e testimone. È stata la domestica a versare sul capo del bambino l’acqua nello spazio intimo e privato della cucina ed è stata lei l’unica testimone di tale atto. Lo ha fatto per paura e superstizione. E con atto altrettanto arbitrario ha deciso, sempre lei, di non dire nulla per sei anni, fino a quando non ha intravisto l’interesse a farlo, cioè ricevere un compenso per la sua confessione.

Al fondo di un processo di modellamento di una nuova soggettività, come quella del piccolo Edgardo, sotto il giogo della chiesa cattolica e del papa in prima persona, c’è dunque un rito inassegnabile, privato ed arbitrario. La rieducazione cattolica, effetto di un potere disciplinare, inizia dunque da qualcosa di infondato, letteralmente arbitrario ed anarchico (an-archè). È da lì che parte l’applicazione della legge, che non prevede eccezioni e che non consente di fare altrimenti. Il che significa, sì, privazione della libertà per coloro che al potere sono soggetti, ma anche riduzione della stessa per coloro che il potere lo esercitano. Non possumus dice Pio IX, non possiamo fare altro rispetto a ciò che stiamo facendo: quel bambino deve essere tolto alla famiglia, portato a Roma ed educato secondo i dettami della chiesa cattolica.

Tale rieducazione non riguarda semplicemente l’imposizione di dogmi (cioè forme del sapere), ma l’indicazione di esercizi da eseguire per il governo di sé, del proprio corpo e del proprio linguaggio (cioè dispositivi di potere). Queste pratiche che il bambino deve assumere su di sé ne fanno letteralmente un soggetto altro. I riti quotidiani, gli esercizi che consolidano la fede, i comportamenti capillarmente eseguiti e corretti, danno forma ad una nuova soggettività.

Foucault lo ha detto meglio di altri: non esiste soggetto senza assoggettamento.  E quest’ultimo passa non per la subordinazione ad una disciplina punitiva, ma per l’assunzione piena di quella prescrittiva. Esercitarsi per diventare lentamente ma inesorabilmente figlio di un altro padre, il papa, di un’altra comunità, la chiesa, e in Cristo diventare figlio di Dio (Cristo che in una delle sequenze visionarie del film Edgardo si trova a liberare dai chiodi della crocifissione per farlo andar via).

La costituzione del nuovo soggetto avviene sempre sotto il segno del padre, che passa da quello naturale alle tante guide pastorali che seguono la formazione cattolica di Edgardo. Il padre naturale, anche per paura, non è capace di fare molto. Si lascia portare via il figlio, e constata quando lo va a trovare la oramai incolmabile distanza che si è creata: il figlio si allontana dandogli le spalle. La madre è più resistente, dichiara con forza il suo amore, pretende di vederlo, e il figlio comunque l’abbraccerà. La madre è resistenza ad ogni rapimento.

Ma il rapimento è l’atto fondativo e violento che instaura l’umano e la civiltà stessa. Tale atto trova nella religione – come dispositivo di sapere e di potere, che governa linguaggio e corpi, dunque anime – la forma di vita fondamentale capace di orientare il senso della presenza dell’uomo al mondo. Il montaggio parallelo tra i riti ebraici di casa Mortara e quelli cattolici di formazione di Edgardo definisce limpidamente tale comune processo formativo, tale parallela costituzione di soggettività. Nei confronti di tale processo non c’è nulla che possa resistervi, né il carnevale mediatico con la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, irrisa dal papa, né l’irrompere della Storia con la Presa di Roma.

In un momento tra i più intensi del film, vediamo come il crollo del muro che opera la Storia, la Breccia di Porta Pia, non scalfisca minimamente, anzi irrigidisca, la posizione di Edgardo. Al fratello, soldato dell’esercito italiano che gli annuncia la possibilità ora di poter tornare in famiglia, Edgardo non solo risponde rifiutando nettamente la proposta, ma lo accusa esplicitamente dell’oltraggio compiuto determinando la fine dello Stato della Chiesa.

Tutto ciò che accade intorno al processo rieducativo, sia dal punto di vista comunicativo che storico, rimane secondario rispetto alla costituzione del nuovo soggetto. E tale processo viene compiuto talmente fino in fondo da non prevedere in nessun momento la possibilità che Edgardo receda dalla sua scelta, che giunge fino al sacerdozio, trasformando addirittura il giovane in qualcuno che prova a convertire la famiglia stessa, come quando si avvicina al capezzale della madre morente con l’acqua per poterla battezzare.

Nello scavo profondo che Bellocchio ha fatto delle istituzioni e dei poteri disciplinari che hanno fondato la soggettività moderna (famiglia, scuola, esercito, chiesa), con Rapito viene raggiunto un livello alto di forza espressiva e di radicalità tematica. Se in altri film l’esercizio modellante, coercitivo e violento del potere era in grado di lasciare sempre almeno un resto, anche folle (Vincere), o dare vita ad una fuga (Il traditore), qui esattamente l’opposto, nessuna fuga né follia, se non quella lucida che trasforma l’educazione imposta in un’assimilazione totale dei valori e delle pratiche dei “rapitori”, tanto da trasformare il rapito in un possibile nuovo “rapitore”.

C’è solo una linea di fuga immaginaria, che non incide sulla realtà, ma libera comunque la potenza reattiva del soggetto, cancellata dal resto della sua vita: sono le visioni di Edgardo, la più impressionante delle quali lo vede prima difendere il feretro di Pio IX, poi invece urlante vedersi tra gli assalitori che lo vogliono gettare nel Tevere. Il potere è giunto in Rapito al suo culmine, perché è arrivato a plasmare capillarmente la volontà stessa del soggetto su cui si è imposto. Il percorso di modellamento è stato totale e completo.

La vita ha preso una forma pienamente e convintamente assoggettata. Ciò che resta fuori da questo sono solo la prossimità e l’abbraccio materni dell’infanzia, l’immagine su cui si chiude il film. Ma è un’immagine che appartiene solo al film, non ad Edgardo. Per quest’ultimo, la madre è colei che va  solo convertita, per il film è invece colei che rappresenta il sentimento d’amore, l’unico che può mettere in questione le pratiche assoggettanti del potere.

Rapito. Regia: Marco Bellocchio; soggetto: Daniele Scalise; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; interpreti: Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese; produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema, Ad Vitam Production, The Match Factory; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Francia, Germania; durata: 134’; anno: 2023.

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