SONG TO SONG - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Sala

SONG TO SONG

TRAMA

“BV (Ryan Gosling) è un musicista che cerca il successo con l’aiuto della compagna cantautrice (Rooney Mara) e del suo produttore Cook (Michael Fassbender). Tra i tre si stabilisce un legame che va oltre il semplice rapporto professionale e che coinvolge presto anche la giovane cameriera Rhonda (Natalie Portman). Nasce così una relazione intima e passionale in continuo bilico tra amore e tradimento. Un’intensa storia d’amore che vanta nel cast, nel ruolo di se stessi, anche numerosi artisti di fama internazionale, tra cui Patti Smith e Iggy Pop” (dal pressbook).

RECENSIONI

BENVENUTI NEL DESERTO DEL DEMIURGO

Sebbene sembri riallacciarsi al percorso iniziato con The Tree of Life e proseguito con To the Wonder e Knight of Cups, Song to Song si discosta almeno parzialmente dalla traiettoria trascendente tracciata dai tre precedenti lungometraggi di finzione per abbracciare una prospettiva terrena (discorso a parte per Voyage of Time, documentario cosmico in cui le due dimensioni si compenetrano intimamente). Del disegno di salvezza intriso di idee gnosticheggianti della trilogia qui non resta che un sapore distorto e perverso, quello di un mondo costellato di ostacoli e steccati sul quale regna incontrastata l'autorità superba e ingannevole del Demiurgo, diabolicamente incarnato da Cook (Michael Fassbender): "È tutto in vendita. Tutto. Onori, titoli. Niente di questo esiste", dice mellifluo all'irretito BV (Ryan Gosling). Quello rappresentato da Song to Song non è più un universo in cui è dato scovare lo scintillio della grazia (The Tree of Life), ciò che Robert Bresson chiamava "fosforescenza", o intraprendere un viaggio spiritualmente liberatorio (Knight of Cups), ma un mondo privo di luminosità nel quale i fallimenti e le sconfitte si susseguono ininterrottamente. Non più il luogo della meraviglia (To the Wonder), ma il teatro dell'infangata illusione ("Sono spregevole. Sono come il fango. Io non ti merito. Mi vergogno", sussurra Faye rivolgendosi interiormente a BV).

Alla direzione verticale della "trilogia gnostica", in cui gli interrogativi delle voci narranti erano indirizzati prevalentemente alla sfera ultraterrena e all'abisso del divino, Song to Song sostituisce una dimensione esclusivamente orizzontale, nella quale gli interrogativi e le riflessioni generati dalle voci interiori si rivolgono agli stessi personaggi. Sono domande e ruminazioni che i personaggi concepiscono nel chiuso delle loro coscienze e che non producono trascendenza: non è dato uscire dalla gabbia di questo mondo senza luce (Faye: "Volevo fuggire da ogni legame, da ogni cosa che mi stringeva. Avere una vita a qualunque prezzo, non volevo una sistemazione. Salire più in alto. Libera"; BV: "Disse: "fidati di me". E io mi sono fidato. Quello che volevo lui l'avrebbe reso possibile"). Detto più semplicemente, in Song to Song le voci interiori che scaturiscono dai personaggi formulano domande e riflessioni rivolte ai personaggi stessi e non a entità metafisiche. L'orizzonte di Song to Song è irrimediabilmente chiuso, il titolo stesso suggerisce il moto perpetuo di canzone in canzone (Faye: "Pensavamo solo di poterci rotolare là in mezzo. Vivere di canzone in canzone, di bacio in bacio"), di esperienza terrena in esperienza terrena, di seduzione carnale in seduzione carnale (ancora Faye: "Ho passato un periodo dove il sesso doveva essere violento. Volevo disperatamente qualcosa di vero. Niente sembrava vero. Ogni bacio sembrava la metà di quello che dovrebbe essere. Avevo solo bisogno di aria").

Degli ultimi film di Malick, insomma, Song to Song è in definitiva quello più terrestre, doloroso e concreto. Ambizione, fallimento, paura, rimorso, vergogna e rassegnazione sono i sentimenti umani, troppo umani, che lo attraversano da una parte all'altra. La prospettiva celeste non è che un anelito frustrato (Faye: "Il mondo ti costruisce intorno uno steccato. Come lo superi, come ti connetti?"; BV: "Ti abitui a farti trascinare, ad aspettare. Ti dicono "segui la luce". Dove la trovi?"), il movimento dei personaggi un incessante errare attorno a ciò che fa sentire liberi, dispensando al tempo stesso dal fare davvero qualcosa per essere liberi ("La musica è sentirsi liberi, così non dovete fare niente per essere liberi. Perché non mi rispondete a questo?", tuona Val Kilmer dal palco in una breve e uranica apparizione). Ci troviamo in una realtà in cui a dominare è l'ostruzione del recinto che separa gli individui dalla dimensione spirituale: benvenuti nel deserto del Demiurgo (Faye: "Aveva le mani in pasta dappertutto. Aveva i soldi, era famoso. Credevo potesse aiutarmi, se avessi pagato il dovuto"). Non resta che il sovrano della materia a regnare e ingannare col suo orgoglio smisurato: "Qui io regno. Re. Chi ci vede? Il mondo vuole essere ingannato", sussurra Cook a una soggiogata Rhonda dopo averle fatto mangiare un fungo allucinogeno impregnato, a suo dire, di sostanza divina ("Ti dà la vita. Mangialo. L'ho assaggiato. Provalo. È intinto in Dio").

A questa inusitata densità materiale corrisponde sia la sensazione invadente e dichiarata di bestialità (Faye: "Sono una bestia. Ma la cosa non mi rende infelice. Sembra che io non porti più felicità alle persone") sia il brulichio di animali lungo tutto il film (farfalle, uccelli, libellule, cigni, cavalli, galline, asini, lama, cani, cerbiatti, processionarie e via seguitando). Persino la rappresentazione della sessualità assume una qualità mai così tangibile e tattile in Malick (gli sfioramenti tra Faye e Zoey/Bérénice Marlohe, l'amplesso sul tavolo tra BV e Faye, le contorsioni orgiastiche di Cook con le due ragazze portate nel suo appartamento). Ma è l'intera messa in scena ad acquisire una proprietà sensibilmente e sensorialmente diversa dai tre film precedenti, molto meno aerea ed eterea, molto più terragna e concreta. Basta l'incipit a svelarlo: il film si apre su uno schermo nero tenuto per alcuni secondi e, quando la luce irrompe, lo fa orizzontalmente con l'apertura di una porta ad altezza uomo, non più illuminando la terra da altezze celesti (Cook, sulla destra del quadro, apre minacciosamente la porta, Faye, in penombra sulla sinistra, osserva intimidita la scena come se fosse stata scoperta). Una spazialità tutta terrena che trova ennesima conferma nel finale, in cui BV e Faye, riconciliati nella misericordia e nel ritorno a una vita semplice, si abbracciano sdraiati sul suolo pietroso. Nel desiderio di una vita condivisa e di un amore perenne che, ai miei occhi, per quanto sincero e rigenerato da un'abluzione lustrale (BV che bagna più volte Faye sulla sommità della collina), sprigiona un rinunciatario e consolatorio retrogusto di rassegnazione: "Questo. Solo questo".

Ringrazio Alessandro Lanfranchi, la cui recensione pubblicata il 6 maggio sul sito di "Cineforum" presenta numerose affinità con la mia lettura del film.

Un film girato in parte nel 2012, durante l’Austin City Limits Festival: ritornano spesso, infatti, scene di backstage e di masse di giovani a seguire i loro eroi musicali (Arcade Fire, John Lydon, Iron and Wine, Iggy Pop, Florence and The Machine, The Black Lips, Lykke Li, i Red Hot Chili Peppers;  a Patti Smith è riservato un posto speciale, recitativo e di musa ispiratrice sull’amore). È stato, poi, completato nel 2015 in contemporanea con Knight of Cups ma è uscito in sala solo due anni dopo: a confronto con le ultime opere “sperimentali” di Malick, è più “narrativo”, per quanto a blocchi-puzzle, con ruoli e relazioni che si svelano progressivamente. L’opera precedente che ricorda di più, tematicamente, è To the Wonder, ma qui è la donna a non cogliere il dono del sentimento dell’Amore che, ormai è evidente, per Malick è supremo: in una struttura corale, Rooney Mara ha il personaggio centrale, sulle cui elucubrazioni si fonda gran parte del “senso” del film. Come altrove nella sua filmografia, colte le chiavi di lettura e fatta la tara della sua poetica che ama divagare, aprire rivoli narrativi e sviare con essi (atto non volontario, figlio dell’indifferenza per le regole drammaturgiche stringenti), ciò che Malick dice a parole, con i vari Io narranti, con le domande esistenziali (che tornano uguali di film in film), non è tanto profondo quanto ciò che evoca, sottopelle, per montaggio e immagini (qui impera il grandangolo), attraverso accostamenti e suggerimenti sensoriali. Di inedito c’è una chiusura lieta, almeno per una delle coppie protagoniste: nonostante le licenze poetiche che sempre si concede, in parte figlie della sgrammaticatura della nouvelle vague, Malick non approda alla vacuità del finale aperto e il racconto lineare appassiona fra tragedia, disperazione e catarsi, preparato con precedenti evocazioni ma anche ripetitività sfinenti che, a tratti, nemmeno le immagini riescono a smussare. Non è casuale che, dopo il mondo del cinema di Knight of Cups, sia centrale quello della musica: in questo caso, gran parte delle domande filosofiche hanno a che fare con la ricerca della felicità, di un brano da cantare, di un’esistenza che passi di canzone in canzone.