Marlon Brando, il puro istinto che rivoluzionò Hollywood - Lettera43

Marlon Brando, il puro istinto che rivoluzionò Hollywood

Il 3 aprile 1924 nasceva uno dei più grandi attori del secondo 900. Capace di coprire integralmente il pentagramma delle espressioni umane, è sempre stato slegato dalle tipologie di personaggio alla John Wayne o alla Gary Cooper. Una novità nel panorama cinematografico Usa e un talento che non ha lasciato veri eredi. Tranne uno: Jack Nicholson.

Marlon Brando, il puro istinto che rivoluzionò Hollywood

«Quando girammo Pelle di serpente, Marlon Brando doveva fare un discorso che conteneva alcuni dei brani più belli scritti da Tennessee Williams. Marlon iniziò la prima ripresa. A circa due terzi del discorso si fermò. Aveva dimenticato le battute. Sesta ripresa. Settima ripresa. Ottava ripresa. La memoria di Marlon si interrompeva sempre alla stessa battuta. Marlon mi aveva detto che in quel periodo aveva dei problemi personali. Mi resi conto che c’era un legame diretto tra i suoi problemi e la battuta che non riusciva a ricordare. Dodicesima ripresa. Diciottesima ripresa. Stava diventando imbarazzante. Ventiduesima ripresa. Non buona per la macchina da presa. Finalmente, alla 34esima ripresa, due ore e mezza dopo che avevamo iniziato quella scena, riuscì a farla tutta. Andammo insieme nel suo camerino. Una volta dentro, gli dissi che avrei saputo come aiutarlo, ma non ne avevo il diritto. Mi guardò, sorrise come solo Brando sa sorridere, come il sorgere del sole. “Sono contento che tu non l’abbia fatto”, mi disse. Ci abbracciammo e tornammo a casa».  A narrare questo episodio è il regista Sidney Lumet, che così conclude: «Tutto quello che riguarda gli attori e la recitazione è racchiuso in questa storia. L’uso di se stessi a qualunque costo, la conoscenza di sé, la fiducia reciproca che nasce tra un regista e un attore, la devozione al testo (Marlon non mise mai in discussione le parole), la dedizione al lavoro, l’arte».

Marlon Brando, il puro istinto che rivoluzionò Hollywood
Sophia Loren con Marlon Brando nel 1954 (Getty Images).

Brando e quel mix di sadismo, volgarità e fascino assoluto

Il 3 aprile 1924 nasceva Marlon Brando, il più grande attore della sua generazione, e probabilmente dell’intera seconda metà del Novecento, il cui sorriso è «come il sorgere del sole», un incredibile mix, per tentare un’analogia con il cinema italiano, tra Marcello Mastroianni e Gian Maria Volontè, ovvero tra una impertinente, quasi sfacciata, naturalezza e la meticolosa spasmodica costruzione del personaggio. Una simile coincidenza dei contrari è confermata da uno dei maestri di Brando, il regista Elia Kazan, a proposito della versione teatrale di Un tram che si chiama desiderio: «Per mettere in scena il testo, la cosa migliore è stata scegliere Marlon Brando, perché Brando possiede volgarità, crudeltà, sadismo e al tempo stesso ha qualcosa di terribilmente attraente. Di Stanley Kowalski, il suo personaggio, volevo mostrare sia il lato umano che la parte corrotta. Una combinazione a prima vista impossibile, ma è proprio questo che mi affascina nella costruzione di un carattere». Brando è l’interprete giusto per una simile sfida, tanto che Kazan prosegue e precisa: «Marlon si situava a un livello differente rispetto a tutti gli altri attori. Io gli spiegavo cosa volessi da lui, e la sua attenzione era totale. Rimaneva in silenzio, poi andava in scena e inventava qualcosa di sorprendente, certamente migliore di quello che gli avevo appena chiesto. Possiede una sensibilità e una violenza eccezionali, una grande intelligenza e un’intuizione esasperata. Egli è bisessuale, come deve essere ogni artista. In lui, è all’opera una capacità percettiva tanto maschile quanto femminile».

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Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio diretto da Elia Kazan (Getty Images).

La novità per Hollywood fu il suo non essere legato a una tipologia fissa di personaggio

Il tratto distintivo del Brando attore, dunque, il vero fatto nuovo a Hollywood, è la copertura integrale del pentagramma delle espressioni umane. Brando non è legato a una tipologia fissa di personaggio, come potevano essere il “duro” John Wayne, o il “brillante” Cary Grant, ma dispone e attraversa un’ampia scala di tipi e caratteri. Brando è il primo attore protagonista a essere davvero moderno, cioè versatile. Il regista del Giulio Cesare cinematografico, Joseph L.Mankiewicz lo dichiara subito: «Marlon, gli dissi, nel personaggio di Marco Antonio non voglio nulla di “Marlon Brando”. Dimentica il Metodo dell’Actors Studio, atteniamoci a Shakespeare e cerchiamo di lavorare in accordo con gli altri attori». E così accade. Nel film, Brando interpreta un non-Brando, distinto e differente da sé. Eliminando ogni riferimento alla tecnica assimilata durante i corsi all’Actors Studio di New York, il cuore dello stile di recitazione del Novecento, Brando si muove liberamente tra classico e contemporaneo. In una parola, moderno.

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Greer Carson, Marlon Brando e Deborah Kerr sul set di Giulio Cesare (Getty Images).

Un attore guidato solo dall’istinto

Stella Adler, sua insegnante, dice di lui: «Marlon non ha mai avuto bisogno di imparare a recitare, lo sapeva d’istinto. Sin dagli inizi, era un attore capace di interpretare qualsiasi ruolo. La gamma dei suoi registri di espressione è incredibilmente vasta. Possiede tutto ciò che serve: lo sguardo, la voce, la presenza fisica». Brando, insomma, è l’attore talmente moderno da risultare quello che oggi si dice un performer, un esecutore creativo a tutto tondo, sia rispetto alla tipologia di personaggio a cui dare vita, fragile o virile, sia in rapporto alla tecnica recitativa da impiegare volta per volta, classico o contemporaneo. Egli è l’attore che può fare qualsiasi cosa, anche ciò che sembra andare contro il proprio temperamento o la propria formazione. «La sua vita», ricorda ancora la Adler, «è quella di un attore 24 ore su 24. Se vi incontra, vi osserva: il vostro sorriso, i dettagli dei denti, tutto». Non si tratta del consueto connubio arte/vita, ma dell’istinto che fa di ogni istante della giornata un teatro di ascolto e di apprendimento. Lo annota anche la più grande critica cinematografica americana, Pauline Kael, che scrive di lui: «L’istinto è la sua sola guida».

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Marlon Brando e Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi (Getty Images).

Perché l’unico vero erede di Brando è Jack Nicholson

Non è un caso come Brando tenga a battesimo la nidiata dei migliori attori americani. Nella saga de Il padrino, infatti, Al Pacino interpreta suo figlio Michael, e Robert De Niro il suo stesso personaggio da giovane, don Vito Corleone. L’unico erede vero è però Jack Nicholson. Anche se la “bisessualità” in Nicholson risulta meno accentuata, egli nella recitazione di un personaggio mette parimenti in mostra tanto l’estrema fragilità, quanto l’impeto dirompente.

Il parallelo Nicholson-Brando evidenzia come non sia possibile, secondo un romanticismo tipicamente americano, vivere di solo istinto. Entrambi, infatti, intendono la figura artistica e sociale dell’attore in piena coscienza storica e culturale. A tale proposito, sul set di Chinatown, Jack Nicholson confessò una propria originale teoria: «John Wayne, ossia un attore, è stato importante per la psicologia di massa più di qualsiasi presidente americano. In questo senso, io considero quello che faccio come scrittura. Scrittura in un’accezione moderna, perché oggi l’unico vero scrittore moderno è l’attore di cinema». Si tratta di un’affermazione forte e persino cruciale. Nell’età della cultura di massa, l’attore è colui che concentra e rappresenta i tratti caratteriali, tipici e originali, della psiche collettiva, arrivando così a comporre, ovvero a scrivere, il romanzo della società e dell’uomo, in simultanea con il suo svolgimento, sullo schermo e nella realtà. Brando e Nicholson proprio questo hanno fatto.

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Jack Nicholson (Getty Images)

In Italia per tentare qualcosa di simile servono almeno tre figure: Sordi, Mastroianni e Volonté

In Italia, per tentare qualcosa di simile, ci vogliono almeno tre figure. Alberto Sordi, il quale ha disegnato e scritto la storia di un italiano, l’esemplare tipico italiano medio, dalle mille sfaccettature. Marcello Mastroianni, che ha dato corpo e scritto la storia dell’italiano, ossia la quintessenza del maschio occidentale, attraverso lo sguardo di Federico Fellini. E infine Gian Maria Volonté, che ha caricato e scritto le vicissitudini dell’altra faccia dell’italiano, una sorta di contro-personaggio nevrotico e scisso, anticonformista e ribelle. Il modello Brando/Nicholson, così, è un momento cruciale di storia dell’arte performativa del Novecento. La recitazione quale scrittura scenica, epica, di un segmento di storia e cultura. L’attore come autore del romanzo antropologico, storico e sociale, là dove il romanzo stesso accade, e l’uomo è il performer a confronto con gli eventi che lo vedono coinvolto. Chi, oggi, potrebbe sostenere un simile impegno? Verrebbe da dire Joaquin Phoenix, anche se forse per una sfida così impegnativa potrebbe essere ancora presto. Il personaggio del Joker, tuttavia, sarebbe stato certamente perfetto per Marlon Brando, mentre Jack Nicholson, nel Batman di Tim Burton, ci è persino già passato.