E se alla fine avesse ragioni Apple? Di tutte le piattaforme di streaming è quella di cui si parla meno, perché nonostante appartenga a una società che, come Amazon, è molto più ricca delle rivali, ha scelto di produrre e programmare poco sulla propria piattaforma. Apple TV+ ha un catalogo non immenso e prevede ogni mese delle nuove uscite ma non più di 2-3 alla volta. In questo somiglia più a una piattaforma curata, come si dice in gergo, che non mira cioè ad aumentare tanto la sua riserva, quindi soddisfacendo un pubblico sempre più ampio in modo che tutti possano trovare qualcosa per sé, ma serve un target unico dandogli qualcosa che possa davvero piacergli. Se in molti si sono sentiti frustrati dal grande allargamento di Netflix a un pubblico vasto e quindi dall’arrivo in massa di produzioni diverse da quelle grandiose che offriva in passato, Apple TV+ potrebbe essere per loro un porto sicuro.

L’aggiunta di Sharper (dal 10 febbraio online sulla piattaforma), per l’ennesima volta è un titolo buono. In altri casi sono stati addirittura molto buoni, più di rado delle fregature. È il caso della serie Slow Horses o di Ted Lasso, come anche dei film Greyhound o di Emancipation, Spirited, Causeway, Cha Cha Cha Real Smooth e Una birra al fronte. Tutte acquisizioni fatte con criterio. E come noto arriverà anche Killers Of The Flower Moon di Martin Scorsese con DiCaprio e De Niro. Intanto tocca a questo Sharper, thriller sulle truffe, di quelli cioè in cui si racconta di qualcuno che truffa qualcun altro e che si imbarca in nuove truffe cercando di non essere truffato dalla sua stessa vittima. Sceneggiature complicate che non devono essere confuse e mentre stupiscono devono anche tenere i piedi per terra.

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Sharper inizia con una ragazza a un ragazzo in una libreria, della tenerezza, un interesse in comune, libri prestati, uscite, sesso e un sentimento tenerissimo, fino a che lei non ha bisogno di una grossa cifra e, guarda alle volte il caso, lui è figlio di un miliardario quindi gliela può prestare. Il ragazzo non l’ha capito ma il pubblico sì: una volta consegnati i soldi lei non si farà più vedere. È la prima truffa che ci introduce nel mondo dei protagonisti e della rete di rapporti e denaro che instaurano. È anche la migliore a dire il vero, in un film che rispetto alla media del suo genere tiene duro quasi fino alla fine quando inevitabilmente è sopraffatto dal desiderio che hanno tutti i film di truffa: esagerare e mettere sullo schermo inganni senza limiti.

Prima di quel momento però vedremo entrare in scena Sebastian Stan e Julianne Moore, veri protagonisti della storia, madre e figlio che non sono madre e figlio, al centro di una truffa ancora più grande. Incredibile a dirsi sono loro la parte debole del film. O meglio lo è la loro parte della storia, perché se Sebastian Stan è di una stupefacente fissità e interpreta l’astuzia del suo personaggio attraverso uno sguardo che astuto non è mai, Julianne Moore lavora abilmente di mestiere senza eccessivo impegno, canalizzando quello che sa fare meglio nella direzione di questa donna in cerca del denaro, non più giovane ma ancora molto abile a usare il corpo per arrivare dove vuole.

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Se Netflix ha rispolverato le commedie romantiche e le teen story, questo è invece il tipico cinema Apple TV+, adulto e sofisticato, raramente con target adolescenziale (se proprio devono scendere di età preferiscono andare sui bambini) e più vicino a quello che il cinema mandava in sala 15 anni fa, i film per over 40 con valori produttivi alti. Cinema per un pubblico che a prescindere dal gusto pretende di vedere una fattura di un certo livello. E Sharper consegna esattamente questo. Al netto della grande caduta di stile dell’ultima parte, è indubbiamente cinema di ottima maestria da un cineasta che non ha ancora un nome (Benjamin Caron) e due sceneggiatori che vengono dalla televisione (Brian Gatewood e Alessandro Tanaka). Non è quindi una produzione ambiziosa ma quel livello medio in cui il cinema non crede più perché non stacca più biglietti, quel livello medio con cui sembrava dovesse prosperare per sempre Netflix e che invece, al momento, vive su Apple Tv+.

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Gabriele Niola

Nasce a Roma nel 1981, fatica a vivere fino a che non inizia a fare il critico nell'epoca d'oro dei blog. Inizia a lavorare pagato sul finire degli anni '00 e alterna critica a giornalismo da freelance per diverse testate. Dal 2009 al 2012 è stato selezionatore della sezione Extra della Festa del cinema di Roma, poi programmatore e per un anno anche co-direttore del Festival di Taormina. Dal 2015 è corrispondente dall'Italia per la testata britannica Screen International.  È docente del master di critica giornalistica dell'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico, ha pubblicato con UTET un libro intervista a Gabriele Muccino intitolato La vita addosso e con Bietti un pamphlet dal titolo "Odio il cinema italiano". Vanta innumerevoli minacce da alcuni dei più titolati registi italiani.     
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