Sergio Castellitto: “L’emozione di recitare per mio figlio Pietro. La politica? Necessaria e terribile, al Centro sperimentale voglio mettermi in ascolto e valorizzare i talenti” - la Repubblica

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Sergio Castellitto: “L’emozione di recitare per mio figlio Pietro. La politica? Necessaria e terribile, al Centro sperimentale voglio mettermi in ascolto e valorizzare i talenti”

Dopo l’anteprima alla Mostra del cinema di Venezia esce in sala l’11 gennaio “Enea”, di Pietro Castellitto. Che nel cast ha voluto il padre (e il fratello). Il set, i giovani, la rabbia “che è un diritto ma deve generare armonia”, l’impegno da presidente della storica scuola di cinema: “Voglio occuparmi della bellezza di quel luogo”

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Sergio Castellitto, come ha concluso il 2023 e aperto il nuovo anno?
“In modo tradizionale, in famiglia, con qualche amico. Si cade ogni anno nella trappola di affidare a questo giorno significati speciali, bilanci di vita, propositi per il futuro. Il segreto è farlo passare in serenità, quasi come un giorno qualunque”.

L’11 gennaio esce “Enea”, diretto da suo figlio Pietro (prodotto da Apartment di Lorenzo Mieli e Frenesy di Luca Guadagnino, distribuisce Vision, ndr.) in cui lei interpreta il padre del protagonista. Emozionato?

“Molto, molto. Vedo anche quanto è emozionato Pietro, quanto lo sono i suoi fratelli, sua madre. La viviamo come un’epifania”.

Sergio Castellitto

Sergio Castellitto

 (reuters)

Che significa per lei questo film?
“E’ il primo che ho fatto con mio figlio, che mi ha chiamato per un bellissimo ruolo”.

L’ha chiamata all’una di notte e lei lo ha mandato a quel Paese.
“Perché vado a dormire presto. Ma era un’imprecazione contenta, poi mi sono riaddormentato. Pietro ha messo in campo nel film, non in modo autobiografico, anche i suoi affetti, la famiglia e i rapporti col padre, il fratello, le sorelle. È un atto di coraggio, non di vanità. Questo non significa che noi siamo ‘fuori sync’ come i personaggi del film, però è come leggere la propria vita, anche familiare, intima, e farla diventare cinema”.

Pietro Castellitto

Pietro Castellitto

 (ansa)

Se non le avesse offerto il ruolo?
“All'inizio pensava ad altri attori. Non mi sarei offeso, capisco la difficoltà di doversi misurare in termini intimi. Però noi lo abbiamo fatto in modo sorgivo, senza complicazione psicanalitiche. Ho girato con lo stesso entusiasmo, spirito di obbedienza e di disobbedienza che metto su ogni set”.

La famiglia Castellitto alla Mostra del cinema di Venezia dove 'Enea' è stato presentato

La famiglia Castellitto alla Mostra del cinema di Venezia dove 'Enea' è stato presentato

 (afp)

Il suo è un personaggio con un mistero, ma gli si vuole bene.
“Perché è un uomo perbene, disarticolato, che vive un disagio forse comune a molte persone. Ha un segreto, come ognuno di noi ha avuto nella vita. Di mestiere si occupa del disagio degli altri e si accorge che non ha mai affrontato il suo. Non c'è conflitto autentico fra lui e i figli, alcuni pazienti sono ancora più figli, per lui. Da psicanalista pensi che abbia gli strumenti per sciogliere la ruggine degli altri, ma nel frattempo la sua si inspessisce. E poi si scoprirà il suo segreto, tragicomico”.

In cosa ci si ritrova?
“Innanzitutto, in uno spirito tolleranza verso gli altri. Anche se, come tutti, mi sono arrabbiato tante volte nella vita, con gli altri e me stesso. Mi piace la disponibilità all’ascolto, ti fa fare incontri straordinari con gli altri e te stesso. Oggi si aspetta che l’altro finisca di parlare per partire col proprio monologo”.

Pietro ha detto che la rabbia è il suo grande motore.
“La rabbia è un diritto, un giovane deve averla, ti fa dissotterrare le frustrazioni. È necessaria anche per un attore, specie giovane. Tutti gli attori soffrono un sentimento di generica ingiustizia, si sentono sempre defraudati di qualcosa, un ruolo, un’indicazione a cui obbedire. È una benzina necessaria”.
Cosa la fa arrabbiare?
“La generale ipocrisia. Il nostro è un Paese in cui le persone mediamente si detestano. Lo sforzo che faccio alla mia età è trovare un punto di armonia con gli altri. Pur mantenendo le proprie idee, disistime o ammirazioni. C'è già tanta guerra nel mondo, in quella quotidiana di un Paese in apparenza pacifico assistiamo continuamente a conflitti, penso al festival dei talk show televisivi. La rabbia è come il colesterolo, c'è quello buono e quello cattivo. È importante coltivare quella positiva, che alla fine ti fa generare anche armonia”.

Ha seguito il discorso di fine anno del presidente Mattarella?
“Sì. L'ho trovato straordinario, con una passione e anche una preoccupazione, però luminosa, che mi è sembrata anche più alta dei discorsi degli anni passati, sulla guerra: non esiste una generica bontà, i conflitti vanno affrontati, non si risolvono con un desiderio tout court di pace. E poi il discorso commovente sui giovani, la sfida delle nuove tecnologie. L’ho ascoltato in un silenzio molto più vicino al raccoglimento che al silenzio educato”.
E di questa classe politica cosa pensa?
“Quello che ho sempre pensato: che la politica è necessaria e terribile allo stesso modo, che esiste più politica in un quadro di Mirò che in tanti reportage o talk show. E che il mio compito è cercare di risolvere conflitti e dialoghi con gli altri attraverso quelli che sono gli strumenti dell'artista. Per esempio, adesso, attraverso questo questa esperienza che è abbastanza formidabile del Centro sperimentale”.

Una grande polemica ha preceduto la sua nomina a presidente del CSC. scelta che ha pacificato gli animi.
“È stato anche il primo segno di soddisfazione. Se ci fosse stata la minima polemica sulla mia nomina avrei rifiutato, perché io sono un costruttore, non un distruttore. Ho fatto patti chiari con tutti all'inizio, ho detto che nella mia vita non sono mai appartenuto a nessuno e se mi si chiamava non mi si chiamava per la mia appartenenza, ma per la competenza. Voglio fare quell'esperienza come se girassi un film, occupandomi dei dipartimenti”.

Com’è stato l’inizio?
“Ho subito fatto un’assemblea con gli studenti. Mi sono presentato, alcuni di loro hanno messo sul campo le loro istanze, io mi sono preoccupato di offrirgli le mie iniziali idee. Il Centro sperimentale è un luogo di burocrazia e creatività, soprattutto una scuola d'arte. I lingotti d'oro sono gli studenti e la straordinaria Cineteca. L’idea è capire come tutto questo può essere raccontato in maniera ancor più luminosa e portato fuori. La prima iniziativa a cui lavoro è questa “Diaspora degli artisti in guerra“. Stiamo organizzando tre giorni di incontri chiamando registi dalle zone di guerra del mondo, Medio Oriente, Ucraina, Afghanistan, Birmania, Africa, Mali e così via. Sarebbe straordinario, pensando che il Centro sperimentale l’ha diretto Roberto Rossellini, un regista che ha raccontato, guarda caso, non la guerra, ma il dopoguerra. E poi è un luogo di grandi eccellenze, di dipartimenti legati agli effetti speciali, al restauro, in cui lavorano persone di grandissima competenza. Il mio compito è lo stesso del regista: agitare, rintracciare, dissotterrare il talento degli altri”.

Dopo le “dimissioni” di Marta Donzelli gli studenti erano in rivolta.
“Finora il rapporto con me è stato sorridente e sereno. Quella storia non l’ho seguita tanto, la vicenda della mia nomina è stata successiva. Le proteste sono fisiologiche ed erano legate al cambio di presidenza. Non entro in quel merito, io lavoro dal 26 ottobre. Questo è l’anno in cui capirò se riesco a combinare qualcosa di buono”.

A pensare a lei è stato Pupi Avati.
“L’idea è stata sua, la prima risposta è stata no. Non ho mai pensato di essere o diventare un manager. Ma poi ho capito che poteva essere una sfida entusiasmante per cose che so fare, affidando a esperti l'organizzazione, la burocrazia di una Fondazione. Io mi voglio occupare della bellezza di quel luogo”.

Sergio Castellitto e Pupi Avati sul set di 'Dante' 

Sergio Castellitto e Pupi Avati sul set di 'Dante' 

 

Se la invitano ad Atreju ci va?
“No, non vado. Ma non troverei neanche così grave andarci, così come andrei alla Festa dell'Unità o in qualsiasi altro luogo. Perché credo che questa cosa di far diventare un rifiuto o un'accettazione una scelta politica sia abbastanza banale”.

Ha girato un altro film?
“Uno delizioso di Giovanni Veronesi, Romeo è Giulietta. Una commedia ma con passaggi di calda malinconia e bella cattiveria da commedia all’italiana. Senza spoilerare, il titolo fa presagire che ci saranno passaggi di identità di genere”.

Un film politico?
“Cosa c’è stato di più politico della nostra commedia? È uno dei temi centrali, non andrebbe derubricato soltanto a posizioni politiche. Sono cresciuto in un gineceo di sorelle, di madri, per cui per me è naturale il rapporto con il mondo femminile, come con la libertà di ognuno di fare ciò che davvero sente giusto per la propria vita. Ci mancherebbe”.

Si parla di grande crisi della commedia pura, oggi.
“Bisogna distinguere tra il film comico, esercizio ginnico diverso dalla commedia, che è pura drammaturgia, scrittura e costruzione dei personaggi. In questo senso il film di Pietro è anche una straordinaria commedia umana. Un film di totale, assoluta, originalità e libertà”.

Non solo Pietro, c’è anche Cesare. Com’è stato ritrovarsi con i suoi figli sul set?
“Ci siamo abbastanza affettuosamente ignorati, è stato più naturale di come immaginavo, divertente poter controllare i figli da papà, anche nel lavoro. E poi è stata una sorpresa continua: Pietro faceva me bambino in Non ti muovere, il bimbo con la rana uccisa fra le mani o quando mangia gli spaghetti mentre il padre annuncia che se ne andrà da casa. Aveva nove anni, ora questo. Sono soddisfazioni”.

In tutto questo, Margaret Mazzantini?
“Margaret è sempre molto vigile, ma in maniera laterale. Il che non vuol dire che non conti. Conta molto più la sua di altre opinioni a casa nostra, dove tutti hanno diritto di parola ma la sintesi spetta a lei”.

Sergio Castellitto con la moglie Margaret Mazzantini

Sergio Castellitto con la moglie Margaret Mazzantini

 (fotogramma)

Lei com’era all’età di Pietro?
“Completamente diverso da lui. Ci diciamo, scherzando, che se ci incontrassimo in un sogno, tutti e due trentenni, non ci capiremmo. Veniamo da esperienze umane del tutto diverse, anche sociologiche, di classi sociali. E in questa diversità c’è la bellissima curiosità: costruirsi dei figli cloni non è granché nella vita”.

La sua famiglia di provenienza com’era?
“Era una famiglia italiana, i cui figli hanno studiato e poi lavorato, costruito un progetto legato alla necessità di trovare una strada, una condizione esistenziale di dignità. Sa perché il lavoro oggi è così drammaticamente il tema? Perché non può escludere la ricerca della felicità, non dovrebbe farlo. Io ho fatto l’attore, ma mi sono sempre immaginato come qualcuno che andava a fare un lavoro, straordinario, dove gli strumenti erano l'immaginazione, la creatività e così via. Il mio atteggiamento è sempre stato quello di una disciplina”.

Le notizie di cu si parla sono la sparatoria di Capodanno, la polemica sulla beneficenza di Chiara Ferragni...
“La vera notizia di cui mi interessa parlare è la nuova onda di giovani che si dedicano al volontariato. È un bel segno, una splendida ideologia, questo mettersi al servizio, che non vuol dire diventare buoni, ma aprirsi alla procedura di ascolto che manca tanto tra le persone. Una cosa bella. Purché le cose non vengano pubblicizzate in materia strumentale: ognuno di noi compie dei gesti e se li tenga per sé”.
Pietro farà un incontro intitolato “Il mio Vietnam”, prendendo di petto la polemica sulla sua dichiarazione legata a Roma Nord.
“E’ il problema delle cose scritte: se l’avesse detta a voce, questa metafora dei Parioli come il Vietnam, avrebbe avuto un peso più leggero. Quando la leggi scritta il popolo degli odiatori dice come ti permetti, i bambini vietnamiti eccetera”.

Come la vive lei Roma Nord?
“Da persona attempata, un quartiere tranquillo, ha Villa Ada vicino, è piacevole. Poi io sono arrivato a Roma Nord, ma sono nato a Centocelle, ci ho passato l’infanzia, poi sono stato radicalizzato in Prati, dove gravito ancora. Per cui io gioco una piccola storia da questo punto di vista completamente diversa, tant'è che spesso io gravito su Prati. Poi c'era un periodo in cui mio figlio Cesare, da piccolo, era ossessionato dall'idea di visitare le periferie. Prendevamo la macchina e lo portavo a vedere le borgate, siamo affascinati da quella Roma che sta intorno a quella Roma che sembra stare bene, che poi bene non sta. Pietro non dice una inesattezza quando dice che Roma Nord è un luogo di conflitti, anche di solitudine, anche di dolore. Al di là del populismo di dire “sei benestante e ti lamenti pure”: tutti hanno diritto a lamentarsi, anche i ricchi.

Cesare che carattere ha?
“Cesare è il mio eroe. Ha un sacco di difetti, un carattere irruento, ma anche dotato di profondità e di una sua malinconia che comunque sono un tesoro. L'importante è che le malinconie non diventino depressioni e che le tristezze producano immaginazione”.

L’immagine più forte, che le resta, di “Enea”?
“Senza fare spoiler, il finale, perché lì c’è anche la visione personale, intima. Accanto a me c’era Chiara Noschese, che ha fatto un personaggio stupendo nel quale, in qualche misura trasfigurata c’era Margaret”.

La generazione dei genitori sopravvive e vola, quella dei giovani è sconfitta.
“Uno dei segni più sorprendenti e anche più commoventi di quel che racconta è che esiste una generazione di adulti perbene, ma inadeguata alla felicità. E una generazione di giovani per male, che rivendica il diritto di essere ancora romantica, depositaria di sogni. In questa differenza fra adulti per bene, ma infelici e giovani per male che combattono per la propria felicità c’è la vera grande lezione del film”.

Avevamo detto niente propositi. Ma uno solo, per il 2024?
“Una cosa semplicissima: continuare a lavorare e fare cose che fanno sentire il tuo lavoro ancora necessario”.

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