“Sans Soleil” di Chris Marker – Recensione

Sans Soleil

«Vi scrivo tutto ciò da un altro mondo, un mondo di apparenze. In qualche modo, i due mondi comunicano. La memoria è per uno ciò che la storia è per l’altro: un’impossibilità. Le leggende nascono dal bisogno di decifrare l’indecifrabile, i ricordi devono fare i conti con i loro deliri, le loro derive. Un istante bloccato brucerebbe come l’immagine di un film davanti alla fornace del proiettore». Sans Soleil (1983) è pura descrizione visiva e cristallizzazione della memoria, con il ricordo che assume i tratti di un riflesso opaco che nel momento in cui si manifesta cessa già di essere tale per diventare qualcos’altro, un’immagine del reale, un’eco simulacrale che perde la propria condizione ontologica originaria per produrre il nuovo. La memoria non è la storia e la storia non è la memoria, la macchina da presa riprende il mondo ma la sua testimonianza è sempre filtrata da un’immagine. Così, lo sguardo di un passante si carica di significati nuovi e imprevisti, occupando non più solo lo spazio del reale ma anche – e soprattutto – lo spazio del fotogramma.

A parlare direttamente allo spettatore di questa condizione costitutiva dell’immagine cinematografica non è il regista del film Chris Marker (celebre soprattutto per il suo La Jetée), bensì il suo alter ego fittizio Sandor Krasna, a sua volta rimodulato attraverso la voce narrante di Florence Delay. Chris Marker si propone anche nelle vesti di artigiano dell’immagine, assemblando, ricomponendo e trasformando materiali girati da altri registi e videomaker con l’obiettivo di dare una forma concreta al proprio pensiero. Sans Soleil si presenta così come un racconto di viaggio a cavallo tra documentario e fiction, con il titolo che si riferisce al ciclo di canzoni Senza sole di Modest Petrovič Musorgskij, richiamandole espressamente in una sequenza ma preferendo però far sì che anch’esse diventino parte di una memoria mutevole e cangiante, con synth e paesaggi sonori asettici che da un certo punto di vista si impongono sull’immagine azzerando ogni possibilità di un suono invece diegetico.

Sans Soleil

«Ricordo quel gennaio a Tokyo, o meglio ricordo le immagini che ho filmato. Si sono sostituite alla mia memoria. Sono la mia memoria». La memoria diventa immagine e l’immagine diventa un filtro tra passato e presente. Non a caso, Sans Soleil si apre immediatamente con una riflessione su un’immagine in particolare, quella di tre bambini in Islanda nel 1965. Si passa poi al Giappone, alla Guinea-Bissau, a Capo Verde. E, ancora, alla San Francisco de La donna che visse due volte (1958, Alfred Hitchcock) che diventa testo fondamentale per comprendere la natura della memoria, una memoria impossibile e folle che si regge sul valore dell’istante. L’istante, catturato dall’occhio umano. Ma non solo: sono anche le immagini del cinema e della televisione giapponese a guardare e urtare Sandor Krasna, esattamente come gli occhi dei passanti di Praia.

Il rapporto tra lo sguardo umano e la macchina da presa è un corteggiamento e un gioco sensuale, così come la relazione tra le immagini di Sans Soleil e lo spettatore. Immagini che, in alcuni momenti, appaiono sensibilmente alterate, distorte e a volte irriconoscibili. È la Zona tarkovskijana, esplicitamente richiamata da Marker per descrivere l’operazione di modifica attuata sull’immagine da Hayao Yamaneko, forse un individuo reale, o forse un’altra manifestazione dello stesso Marker. Se per Andrej Tarkovskij, in Stalker (1979), la Zona rappresenta la vita, per Chris Marker diventa sentimento, memoria e immaginazione, necessariamente filtrati tuttavia dalla «materia elettronica». È un affare non solo metafisico, ma anche politico: «se le immagini del presente non cambiano, cambiate quelle del passato». Decostruzione frammentaria, ricomposizioni impossibili, racconto fittizio del vero: una raccolta, però, di immagini «meno false» di altre, capaci di sviscerare l’enigma della visione.

Daniele Sacchi