la recensione

Empire of Light è una storia toccante sugli incontri che cambiano la vita

Ispirandosi alla vicenda di sua madre, Sam Mendes firma un film sul prendersi cura, sulla malattia mentale e sulla magia del grande schermo. Dal 2 marzo al cinema
Empire of Light è una storia toccante sugli incontri che cambiano la vita

In Empire of Light siamo all'inizio degli anni Ottanta, al cinema danno All That Jazz e The Blues Brothers. Una donna di mezza età entra in una sala cinematografica, accende le luci, ha il volto terribilmente triste. Fuori nevica, dentro la sua anima probabilmente anche. Una chiacchiera con i colleghi a fine serata, poi il rientro a casa, in una solitudine nera. Stiamo guardando la vita della duty manager di un cinema, Hilary Small, a cui dà corpo, voce e (straripante) umanità Olivia Colman.

Ispirata alla madre del regista Sam Mendes, Hilary è una donna con problemi seri di depressione. Scopriamo sin da subito che assume il litio per i suoi disturbi mentali. La vediamo scomparire nella sua vasca da bagno, lasciarsi possedere frettolosamente dal suo capo in ufficio (interpretato da Colin Firth), la sua vita sembra un anonimo e poco entusiasmante susseguirsi di fatti. Finché nella sua vita non entra Stephen (Micheal Ward), il nuovo bigliettaio del cinema molto più giovane di lei, con cui scatta subito un'evidente simpatia. Insieme salvano un piccione e condividono una terrazza di confidenze, segreti e condivisioni tra outsiders. La vita della protagonista si rianima, a un bacio tra i fuochi d'artificio seguono scene romantiche di risate sui pattini, alle giostre, con lo zucchero filato in mano, tra un discorso incoraggiante e l'altro: "Nessuno ti darà la vita che vuoi, devi uscire e prendertela".

Più che una storia d'amore, una relazione di reciproco sostegno, di ascolto, di cura. Lui la riapre alla vita, lei lo difende come può da insulti razzisti continui. Mendes li sintetizza in due scene visivamente d'impatto, nella prima un cliente si rifiuta di entrare in sala senza cibo e lo insulta divorandoglielo davanti in modo disgustoso, sbrodolandosi con le sue chips. Per fortuna esiste il cinema, dove smarrirsi in orizzonti visivi affascinanti e carichi di suggestione, prontamente proiettati da Toby Jones, a cui spetta un toccante monologo sulla magia del cinema, cioè della vita 24 fotogrammi al secondo.

Sam Mendes firma un film toccante sul prendersi cura dell'altro e sul cinema capace di salvare. La gioia di Hilary adesso è palpabile e contagia lo spettatore nel suo rinnovato entusiasmo: la vediamo tornare a sorridere, ballare, emozionarsi. L'incontro con Stephen le ha visibilmente dato una nuova linfa vitale. Peccato basti una giornata al mare in cui lui le confida una perplessità per far crollare di colpo ogni romantico castello di sabbia: la furia di Hilary/Colman è cieca, il suo monologo contro gli uomini memorabile. A breve ricadrà nella depressione che l'aveva inghiottita, non si presenterà al lavoro e, visibilmente alterata, salirà su un palco per insultare il suo capo e tutti i presenti con un (irresistibile) To fuck or not to fuck.

Sarà l'inizio della fine: in Empire of Light, Colman firma l'ennesima performance superlativa lasciandosi andare in un vortice di follia sempre più oscura, fino a esplode in casa di fronte a un bicchiere di vino rosso. È in quel momento di assoluta fragilità che Stephen torna a prendersi cura di lei, ascoltandola e accogliendo il magma incandescente di confessioni e dolorosi ricordi di infanzia che lei si fa uscire.

Sul finale il regista pigia l'acceleratore passando dalla follia personale a quella collettiva e mettendo in scena il secondo, e più devastante, attacco razzista. Sarà allora che Hilary mostrerà a tutti, in primis a sé stessa, il proprio valore. Proverà di essere pronta a correre in soccorso del suo "amico" e recuperare quel rapporto di profonda reciproca protezione che i due outsider hanno saputo costruire. Perché la forza di questo nuovo film di Mendes, lontano dalla perfezione memorabile di film come Revolutionary Road, sta proprio nella bellezza dell'imperfezione, nei suoi personaggi dolorosi e vulnerabili, nei deliri che contengono tanto cuore. Ma anche nei fasci di luce (e di speranza) capaci di squarciare il buio, in una sala cinematografica come nella vita.