Back to Black

Back to Black

di

Back to Black di Sam Taylor-Johnson è un biopic a suo modo onesto e sincero, che anziché vittimizzare la sua protagonista aderisce in toto al cuore e alla voce di una donna che era nata per la musica, ma anche per amare ed essere amata, e ne rispetta le scelte e i limiti. Marisa Abela, poco o nulla somigliante con Amy Winehouse, è prodigiosa.

L’amore è un gioco a perdere

Vita e musica della musicista londinese Amy Winehouse, che ha iniziato come cantante jazz per poi crescere fino a diventare una superstar della discografia mondiale, vincitrice di un Grammy. La sua vita si è interrotta nel 2011 a soli 27 anni, dopo una lunga battaglia con l’alcolismo e la tossicodipendenza. [sinossi]

Partiamo subito dal presupposto che Back to Black, quarto lungometraggio della fotografa e regista londinese Sam Taylor-Johnson incentrato sulla vita e la musica di Amy Winehouse, è un biopic canonico, fin troppo ligio all’abusata ricetta “genio e sregolatezza”, e non possiede né la visionarietà né i percorsi alternativi tentati da Todd Haynes in Velvet Goldmine (1998) e Io non sono qui (I’m Not There, 2007) o da Baz Luhrmann nel recente Elvis (2022). La cineasta, che a inizio carriera si è occupata di video musicali per pop star come Elton John e R.E.M., e che esordì nel lungometraggio con un biopic sul giovane John Lennon, Nowhere Boy (2009), ricostruisce qui i momenti più salienti della vita della cantautrice britannica ed ebraica Amy Winehouse, dall’eyeliner aggressivo, il taglio di capelli beehive e una voce potente e inconfondibile, a tredici anni dalla sua dipartita. E li amalgama in modo organico con i testi e la musica delle sue canzoni, che scorrono lungo tutto il film sia in versione live (in sala prove, locali o arene), sia da altre sorgenti, come radio o juke-box. Operazione mai come in questo caso legittima, dal momento che le canzoni di Amy Winehouse sono dichiaratamente autobiografiche e dunque impastate dei suoi sentimenti e anche degli eventi che costellarono la sua vita. Il film di Taylor-Johnson evita di prendere posizione, di rintracciare colpevoli e distribuire colpe per la “caduta” e la morte prematura della cantautrice londinese di Camden (nata però nel borgo limitrofo di Enfield), entrata a far parte anche lei del cosiddetto Club dei 27: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Kurt Cobain, tutti morti all’età di 27 anni. Sicuramente il motivo principale di questa scelta è quello di evitare il rinfocolarsi delle polemiche piovute da parte dei famigliari di Winehouse sul film documentario Amy (2015) di Asif Kapadia, ipotesi che sembra avvalorata in particolar modo dal ritratto sostanzialmente positivo in Back to Black della figura di Mitch Winehouse, il padre di Amy (interpretato dall’ottimo Eddie Marsan), che nel film appare sempre preoccupato non solo del successo di sua figlia, ma anche del suo benessere. Ma il film non si scaglia nemmeno contro la figura del fidanzato tossicodipendente Blake Fielder-Civil (Jack O’Connell), evitando di farne il diretto responsabile della spirale discendente della cantautrice. Viene invece mostrato, immancabilmente, il perenne assedio di Amy da parte dei paparazzi: un cliché, certamente, e un bersaglio “anonimo” fin troppo facile, anche se non per questo meno reale e pertinente.

Se quanto detto finora, e cioè questa visione conciliante e reticente, quasi compromissoria nei confronti della famiglia di Amy, fosse l’unico aspetto da rimarcare del film, non se ne potrebbe che dare una valutazione negativa. Ma per fortuna questo è solo un punto di partenza, dato che Sam Taylor-Johnson opta per una lettura profondamente empatica e del tutto aderente al cuore e alla voce di Amy, facendo di lei una donna perennemente affamata d’amore e spesso dall’amore ferita a morte (“I died a hundred times”, canta nella canzone che dà il titolo al film). Ne ritrae virtù e limiti senza reticenze, senza mai colpevolizzarla né assolverla, senza denigrarla né mitizzarla. Le scelte di Amy, allora, ci appaiono sempre autodeterminate, nel bene e nel male: sia per ciò che concerne la sua carriera, per la quale era disposta ad accettare ben pochi compromessi, sia riguardo alla sfera sentimentale e affettiva, nella quale fu centrale la figura della nonna Cynthia (Lesley Manville) che Amy definiva “la mia icona di stile”. Autodeterminata persino negli eccessi e nei comportamenti autodistruttivi, ma sempre e comunque vera: “Voglio essere ricordata per quello che sono” è la frase che apre e chiude Back to Black. Il film evita di soffermarsi sul resoconto degli episodi più spiacevoli e umilianti dei suoi ultimi mesi di vita, come l’ultimo concerto del 18 giugno 2011 a Belgrado (a poco più di un mese dalla morte, avvenuta il successivo 23 luglio), tuttavia la si vede e ascolta cantare versi lucidi e autoconsapevoli: “my destructive side has grown a mile wide” (“Il mio lato distruttivo è cresciuto di un miglio intero”, dal What Is It About Men). Fino al finale, che è una dissolvenza in bianco e si sostituisce al voyeurismo della morte – la certificazione del cadavere più o meno “squisito” (purché giovane) e di dominio pubblico, pronto alla consacrazione e al mito – limitandosi a una commemorativa didascalia.

Ovvio che un biopic così “pacificato” e atto a non voler scontentare nessuno, ma anche centrato sul cuore e la voce di una donna per tanti versi unica e inimitabile, avesse bisogno quanto mai di un’interprete adeguata, e difatti la trova nel volto e nella voce di Marisa Abela. Britannica anche lei (di Brighton e con antenati ebrei da parte di madre), che giunge per la prima volta alla ribalta come protagonista assoluta dopo un pugno di ruoli di contorno, uno i quali in Barbie (2023, Greta Gerwig). Considerando che la sua somiglianza con Amy Winehouse è tra il vago e il nullo, è a dir poco sorprendente il modo in cui Abela si impone durante il film, tanto come attrice, quanto come cantante dalla voce prodigiosamente simile a quella del suo modello (ma chissà che non sia merito anche dell’ausilio di qualche software di modificazione/simulazione vocale che proliferano oramai ovunque…). Nel corso di Back to Black vengono eseguite da Marisa /Amy una dozzina delle sue canzoni al confine tra R&B, jazz e pop, fra cui ovviamente alcune tra le più note, a partire dalla title track, e poi What is it About Men, Stronger Than Me, Know You Now, la splendida Love Is A Losing Game, Tears Dry on Their Own, Rehab, nonché la bellissima cover Valerie, dagli Zutons. Ma sono presenti altresì brani e autori che hanno dato corpo alla cultura musicale e all’ispirazione di Amy, come Billie Holiday, Sarah Vaughan, Minnie Riperton, Dinah Washington e The Shangri-Las, band che conobbe grazie a Blake. Un’ultima chicca compare sui titoli di coda: è l’inedita e struggente Song For Amy, composta da Nick Cave e Warren Ellis, curatori della colonna sonora del film.

Info
Back to Black, il trailer.

  • back-to-black-2024-sam-taylor-johnson-02.jpg
  • back-to-black-2024-sam-taylor-johnson-01.jpg

Articoli correlati

  • In sala

    bob marley - one love recensioneBob Marley – One Love

    di Caratterizzato da consuete semplificazioni narrative ed espressive frequenti nei biopic musicali, Bob Marley – One Love di Reinaldo Marcus Green conferma la fase non esaltante che il film biografico su artisti del recente passato sta attraversando nel cinema mainstream anglosassone.
  • Cannes 2019

    Diego Maradona RecensioneDiego Maradona

    di Già autore dei film su Senna e su Amy Winehouse, Asif Kapadia racconta un'altra grande star della società dello spettacolo, razionalizzando l'amplissimo materiale di repertorio: Diego Maradona - fuori concorso a Cannes - è la biografia degli anni napoletani del Pibe de Oro, tra miserie e nobiltà.
  • In sala

    Cinquanta sfumature di grigio

    di Dominio, sottomissione, traumi infantili e romanticismo fiabesco, caratterizzano il prototipo del nuovo cinema erotico del XXI secolo.
  • Archivio

    Nowhere Boy RecensioneNowhere Boy

    di Se a conti fatti releghiamo Nowhere Boy nell'aura mediocritas della sufficienza, è soprattutto per la straordinaria verve del cast, con Kristin Scott Thomas ai massimi livelli, David Morrissey come sempre inappuntabile e un gruppo di giovani virgulti da tenere d'occhio.

Leave a comment