Rob Cohen parla del suo film La mummia: la tomba dell’imperatore dragone
Interviste Cinema

Rob Cohen parla del suo film La mummia: la tomba dell’imperatore dragone

Pochi giorni dopo l’uscita in sala del suo ultimo La mummia: la tomba dell’imperatore dragone, il regista Rob Cohen è arrivato a Roma per presentare alla stampa questa sua ultima fatica, terzo episodio della saga iniziata da Stephen Sommers.

Rob Cohen parla del suo film La mummia: la tomba dell’imperatore dragone

Rob Cohen parla del suo film La mummia: la tomba dell’imperatore dragone

Pochi giorni dopo l’uscita in sala del suo ultimo La mummia: la tomba dell’imperatore dragone, il regista Rob Cohen è arrivato a Roma per presentare alla stampa questa sua ultima fatica, terzo episodio della saga iniziata da Stephen Sommers.

A.E. – E’ stato difficile girare un film così pieno di effetti speciali?

R.C. – Assolutamente no. Pur avendo ben presente l'interezza del film, sono riuscito a portare avanti il progetto con equilibrio in due tempi differenti: prima il lavoro sul set con gli attori, poi addirittura sette, otto mesi ad Hollywood per sistemare gli effetti speciali. Sono davvero soddisfatto del risultato ottenuto. Avevo ben precisa in mente l’idea di film che volevo realizzare, ed aver ottenuto un risultato così vicino alla mia fantasia originale è una sfida che sono orgoglioso di aver vinto. Si trattava di amalgamare con cura le due anime del film: non solo rendere gli attori consapevoli dei personaggi creati al computer, ma riuscire anche a fare in modo che anche le creature create in CGI fossero a loro volta “consapevoli” degli attori in carne ed ossa.

A.E. – Mi sembra che nel suo capitolo de La mummia abbia privilegiato molto di più il lato fantastico rispetto agli altri…

R.C. – C’è un motivo ben preciso. Volevo che il climax del film fosse la battaglia finale, quella tra l’esercito di soldati di terracotta e quello dei non-morti seppellito sotto la Grande Muraglia. Non era scritta nella sceneggiatura, ma Stephen Sommers ha immediatamente appoggiato la mia scelta. Per realizzare questa sequenza fantastica però dovevo rendere omogeneo anche tutto quello che avevo il compito di realizzare in precedenza, così quello che è venuto fuori è un lungometraggio maggiormente votato al fantastico. E’ merito dell’ultima sequenza, che dura 23 minuti e contiene più di 500 effetti speciali, la metà dell’intera produzione.

A.E. – Come è arrivato alla decisione di scegliere Maria Bello per sostituire Rachel Weisz?

R.C. – Fin dalla fine delle riprese del secondo film, anni fa, Rachel aveva detto di non voler più partecipare alla saga. Io per coerenza e rispetto le ho mandato comunque la sceneggiatura del mio episodio, ma lo stesso non ne ha voluto sapere, non so nemmeno se ha letto il copione. Una volta che mi sono a mia volta tolto dalla testa l’idea che la protagonista dovesse essere per forza inglese, Maria Bello mi è sembrata subito perfetta per il ruolo, la prima scelta. In parti “forti” come The Cooler, Le ragazze del Coyote Ugly e soprattutto in A History of Violence di Cronenberg ha dimostrato un carisma ed una fisicità impressionanti. Quando ci siamo incontrati la prima volta con Maria per un drink, lei mi ha detto: “Quando da ragazza con le mie amiche andavamo a vedere Indiana Jones, tutte volevano essere Karen Allen, io volevo essere Indiana Jones!”. Dopo aver sentito questo le ho dato subito la parte. Secondo me poi lei è stata bravissima a restituire alla sua storia d’amore col protagonista Brendan Fraser la sensazione di sentimento ormai saldo che si prolunga per ben vent’anni, proprio quello di cui avevo bisogno per sviluppare al meglio la storia che nel frattempo era appunto andata avanti.

A.E. – Ha avuto difficoltà a lavorare inCina, sia sotto il profilo della produzione che sotto quello più strettamente culturale?

R.C. – Sono molti anni che studio e sono affascinato dalla cultura cinese. Prima di iniziare a lavorare a La mummia ero stato in Cina almeno sette od otto volte, ed avevo già ambientato in questo paese una miniserie per la TV cdal titolo The Vanishing Son. Oltre tutto ho una casa a Bali, ed ogni volta che ci vado faccio scalo in Cina. Per quanto riguarda la produzione, volevo fare in modo che il cast arruolato in Cina si fondesse subito col gruppo di attori americani, e così è stato, grazie soprattutto alle decine di consulenti che ci hanno aiuto per gli aspetti storici, militari e soprattutto culturali riguardanti la storia che stavamo raccontando. Col governo cinese abbiamo avuto un ottimo rapporto e la massima collaborazione; purtroppo hanno avuto delle serie difficoltà dopo il terremoto che li ha devastati, e per questo abbiamo avuto dei ritardi che non ci hanno consentito di presentare il film prima delle Olimpiadi di Pechino.

A.E. – Lei proviene da un lungo corso di studi di antropologia: come ha saputo inserirli nel suo lavoro di regista?

R.C. – Fino ad ora ho diretto molti film che parlavano di microcosmi ben precisi, di gruppi specifici: gli ammiratori di sport estremi in XXX, gli amanti della velocità in Fast and Furious, la vita militare in Stealth. Si è trattato di raccontare con la maggior accuratezza possibile alcune forme di sotto-cultura, che possiedono dei loro linguaggi specifici e delle forme di comportamento fortemente orientate, attraverso una psicologia comune sedimentata nei singoli individui. I miei studi di antropologia mi hanno aiutato molto a scoprire e rendere esplicite queste forme sociali più piccole ma lo stesso presenti ed importanti.

A.E. – Quali sono i suoi prossimi progetti?

R.C. – Mia moglie Barbara mi ha appena dato ben tre gemelli: la cosa mi ha talmente reso felice che sto scrivendo un film familiare, ma siamo in una fase ancora molto embrionale. Con la Sony sto discutendo la possibilità di girare un sequel più aderente e personale di XXX, ma il progetto più immediato sono due pubblicità per un’importante banca.

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