Rambo: Last Blood Recensione

Rambo - Last Blood: la recensione del quinto capitolo della saga del personaggio interpretato da Sylvester Stallone

19 settembre 2019
2.5 di 5
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Sly cerca di dare anche al personaggio di John Rambo quella chiusa epica e lirica che è stato capace di regalare a Rocky Balboa.

Rambo - Last Blood: la recensione del quinto capitolo della saga del personaggio interpretato da Sylvester Stallone

Una delle tante e mai confermate interpretazioni del testo di "Five to One", la canzone dei Doors contenuta in "Waiting for the Sun", terzo album della band di Jim Morrison pubblicato nel 1968, riguarda la guerra del Vietnam. Alcuni sostengono si riferisca al fatto che, all’incirca, uno su cinque dei soldati americani di fanteria spediti laggiù non sarebbe tornato a casa vivo; altri al rapporto numerico esistente tra Viet Cong e soldati americani. Sarà per questo, forse, che è la canzone che, all’inizio del film, un John Rambo stanco e sfiduciato inizia ad ascoltare nel suo rifugio sotterraneo, sotto al ranch dell’Arizona in cui s’illude di aver potuto trovare una pace relativa; e che fa esplodere dagli altoparlanti nei tanti tunnel che corrono sotto la sua terra, nel corso di una violentissima carneficina finale alimentata dal fuoco della vendetta.

Questa volta, infatti, Rambo non si muove per difendere sé stesso, o qualcuno che reputa bisognoso del suo aiuto; né tantomeno lo fa per obbligo o convinzione sotto l’insegna della bandiera del suo paese. No, Rambo: Last Blood racconta una vicenda tutta privata, privatissima, che riguarda gli affetti dell’ex reduce del Vietnam, e la sua mente, il suo intimo.
Questo John Rambo del 2019 tornerà in azione per quella che considera una figlia, e il barlume di una speranza nella sua esistenza. Per tentare di salvarla dai trafficanti di donne messicani che l’hanno rapita. Ma, proprio come quando, all’inizio del film, a cavallo come in un western, cerca di salvare degli sprovveduti escursionisti da un’alluvione, riuscendo solo in parte, anche la sua missione oltreconfine per riportare a casa Gabriela è fallimentare: la trova e la porta via, sì, ma questo non è sufficiente.

Se allora fare del bene non sembra proprio riuscirgli al meglio, perché tanto in questo mondo il bene non sembra esistere più, a Rambo non rimane altro che fare il male. Un male che è vendetta, che è rabbia e furore, incanalati dentro i tunnel di una razionalità bellica implacabile, e che si tramuterà in un bagno di sangue tonitruante.
In fondo, sembra suggerire Rambo: Last Blood, il suo protagonista alla pace si può avvicinare solo quando lascia sfogare i suoi istinti, la sua violenza, la psicopatologia che nasce dal trauma del Vietnam, e da un mondo che da allora non sembra migliorato di un millimetro. Seduto sulla sedia a dondolo, sotto una veranda da Far West, ci si può mettere solo dopo aver portato morte e distruzione: ma il suo crepuscolo non ha nulla di rassicurante.

Questa è la teoria messa in piedi da Sylvester Stallone, che cerca di dare anche al personaggio di John Rambo quella chiusa epica e lirica che è stato capace di regalare a Rocky Balboa. Che vuole regalargli un’elegia degna del suo gemello diverso, e soprattutto di quel film del 1982 che per la prima volta lo portò sul grande schermo.
E però, come già in passato, quando si tratta di Rambo a Sly le cose vengono invariabilmente meno bene di quando si tratta di Rocky. Forse perché non si tratta di un personaggio così intrinsecamente “suo” come è invece per il pugile italoamericano.
Forse consapevole di questa perlomeno parziale impotenza, Sly affida il suo film a un signor nessuno come Adrian Grunberg, e lascia che Rambo: Last Blood scivoli nella serie B più sguaiata e abborracciata.
Per arrivare alla mezz’ora finale, quella liberatoria e ultra-splatter che esalta tanto i fan quanto l’impianto teorico del film, si passa per un’ora di cinema scritto malino e girato molto peggio, che mette a dura prova la pazienza di chi guarda.

Due terzi abbondanti di Rambo: Last Blood sono sciatti, piatti, derivativi, e perfino Sly sembra muoversi poco convinto attraverso le scene più contemplative, e perfino in quelle dove, recatosi in Messico alla ricerca della “sua” Gabriela, si scontra con qualcuno che si accorgerà suo malgrado di aver sottovalutato, o quando trova sostegno in una Paz Vega dal volto scavatissimo e quasi irriconoscibile. Sembra a disagio perfino prendendo a martellate cattivoni come nell’Old Boy di Park Chan-Wook.
Forse nemmeno quella parte finale nei tunnel pieni di trappole mortali, con Rambo che gioca coi suoi nemici come al gatto col topo mentre Jim Morrison canta con voce roca, è cinematograficamente memorabile, ma perlomeno è estrema, truce e liberatoria, e in maniera tutto sommato tutt’altro che gratuita. I fan se la faranno comunque bastare. Gli altri, sanno ora a quello cui vanno incontro.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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