Raimondo Franchetti | Il Corno d'Africa

Giorgio Barani, pubblicato a Massaua 24-12-2003

Raimondo Arnoldo Ulderigo Franchetti, l’ultimo dei grandi italiani che esplorarono l’Africa, nacque a Firenze il 30/1/1889 alle ore 11 antimeridiane da Alberto Franchetti e Margherita Levi, discendente da famiglia israelita originaria della Francia che nel XVIII secolo si trasferì da Mantova a Tunisi per attività commerciali quali la produzione e commercio di berretti alla tunisina, fondando una ditta registrata a Tunisi nell’aprile del 1782 col nome Salomone Enriques e Joseph Franchetti.

La famiglia Franchetti ritornò di nuovo in Italia, a Livorno, alla fine del settecento; i due cugini Leopoldo (nato a Livorno il 31 maggio 1847 e morto a Roma il 4 nov. 1917, senatore del regno d’Italia, sposato con Alice Hallgarten) e Raimondo (nato a Livorno nel 1829 dal barone Abramo e morto a Reggio Emilia nel 1905; sposato nel 1858 con Sara Luisa Rothschild) avviarono entrambi a fine ottocento aziende agricole, il primo nell’Alta Valle Tiberina ed il secondo al Cavazzone di Albinea (RE). Raimondo Jr, detto anche Raimondino, manifestò ben presto una viva passione per i viaggi e le esplorazioni, recandosi nel 1910 in Malesia, nell’Indocina e in Annan.

Dopo questi due viaggi iniziali, nel 1912 esplorò i territori del Sudan, risalendo sino al Nilo Superiore e penetrando nella regione del Bahr el Ghazal. Nel 1921 effettuò un grande viaggio di esplorazione e di caccia nel Kenia, nell’Uganda e nell’Etiopia meridionale, riportando a casa una gran quantità di dati, di informazioni e di trofei una parte dei quali sono ora conservati al Museo Civico di Reggio Emilia, città dove il Franchetti venne saltuariamente solo per rendere visita alla madre nella villa che i Levi possedevano a Coviolo.

Successivamente effettuò altre spedizioni in Eritrea, in Somalia ed in Etiopia.

Nella premessa al suo libro Nella Dancalia Etiopica del 1930 l’esploratore dichiarava con queste parole il suo grande amore per l’Africa:

Figlioli, a voi dedico questo libro: oggi siete piccoli, eppure ogni qual volta ritorno dai miei pellegrinaggi mi chiedete che vi parli dell’Africa, e volete sapere, sapere tante cose. Aspettate, piccoli miei; quando potrete leggere questo volume, comprenderete perché vostro padre al cader delle foglie autunnali sentiva la necessità di partire e dirigersi verso sud.

Vorrei che di questo mio male, che mi perseguita da circa quattordici anni, foste anche voi un po’ intaccati. Vi ho chiamato con tre nomi di quei paesi: Simba, Lorian, Nanucki [successivamente ebbe un’altra figlia che chiamò Afdera, la quale poi sposò l’attore Henry Fonda; tutti avuti dal matrimonio contratto in Venezia il 26/10/1921 con Bianca Rocca, figlia del conte Mario Leone Rocca e della N.D. contessa Moceniga Lauretana Mocenigo, patrizia veneta – N.d.C.]; ognuno di questi nomi ha un significato. Viaggiate, state più che potete vicino alla natura, al contatto del sole e della luce; il vostro carattere, i vostri pensieri risentiranno i benefici di queste tre magnifiche creazioni di Dio, perché purtroppo un giorno, e ve lo auguro il più tardi possibile, dovrete anche voi per necessità di cose frequentare quell’esistenza convenzionale a base di arrivismi mondani, dove non troverete che luci artificiose, buone per abbagliare i deboli. Ma allora voi sarete temprati, perché la vita del sud vi avrà insegnato a distinguere ciò ch’è vero da ciò ch’è menzogna”.

Nel libro il Franchetti racconta del suo ultimo e rischioso viaggio di esplorazione nella Dancalia etiopica settentrionale, organizzato anche con l’intento di ricercare e riportare in patria i resti della spedizione Giulietti-Biglieri, trucidata dai Dancali il 25 Maggio del 1881.

Franchetti finanziò personalmente l’impresa con una somma di 3 milioni di lire dell’epoca, prelevata dal suo patrimonio.

La spedizione, dopo che furono ottenuti tutti i permessi per entrare in territorio etiopico, partì da Assab il 22 ottobre del 1928.

Oltre a 90 ascari reclutati in Eritrea, parteciparono all’impresa 12 italiani:

· “il barone Raimondo Franchetti, di Treviso, capo della spedizione;

· il comm. Alberto Pollera, di Lucca, secondo della medesima;

· l’ingegner Silvio Gilardi, di Torino, Professore di mineralogia inviato della società Montecatini;

· l’ingegnere minerario Candido Maglione, di Vico Canavese ( Torino), come sopra;

· il dottor Amedeo Moscatelli, di Pontremoli, medico primario dell’ospedale di Treviso;

· il capitano Piero Veratti, di San Felice sul Panaro (Modena), geodeta topografo dell’Istituto Geografico Militare;

· il marchese Saverio Patrizi, di Roma, Dottore in scienze naturali;

· il conte Riccardo Rocca, di Venezia;

· il ragioniere Erminio De Filippi, di Mornico Losanna (Pavia), capo della carovana;

· il signor Francesco Badolato, di Monteleone Calabro, capo radiotelegrafista della R. Marina;

· il signor Mario Craveri, di Torino, operatore cinematografico dell’Istituto Luce;

· il signor Ettore Nannoni, di Massa Marittima, operaio specializzato della Società Montecatini.”

L’operatore cinematografico Mario Craveri documentò ampiamente tutta la spedizione, della quale ampi spezzoni sono stati riportati successivamente nel documentario di Ettore Della Giovanna girato per la RAI nel 1963.

Nonostante le mille difficoltà la carovana Franchetti ebbe successo: attraversò la Dancalia, eseguì rilievi topografici e studi geologici ed infine riuscì a raggiungere l’altopiano etiopico.

Franchetti non rientrò subito in Eritrea, ove avviò il grosso della spedizione, ma preferì con pochi compagni affrontare il viaggio di ritorno scegliendo un nuovo itinerario attraverso la Dancalia centrale per ricercare le ossa di Giulietti, di Biglieri e dei loro compagni.

Franchetti cercò di carpire informazioni tra i Dancali sul conto di quei bianchi trucidati quarantasette anni prima e finalmente, dietro compensi in armi e in denaro, un vecchio capo dancalo che aveva partecipato al massacro indicò a Franchetti il luogo dove si trovavano le salme dei quattordici membri della spedizione Giulietti; ma non volle accompagnarli, limitandosi a dare indicazioni particolareggiate ad una guida dancala di nome Ibrahim, la quale dopo aver condotto la spedizione fino alle tombe si allontanò nottetempo.

Accampamento di Raimondo Franchetti nella valle di Egreri. In alto a sinistra la guida Ibrahim che condusse la Spedizione sul luogo dove nel 1881 vennero uccisi Giulietti ed i suoi compagni.

Durante il viaggio di ritorno verso Assab i membri della spedizione Franchetti appresero da alcuni carovanieri che la guida era poi stata uccisa dagli stessi Dancali.

Sul luogo in cui Giulietti e i suoi uomini erano morti Franchetti fece porre un’epigrafe – scritta in italiano, e in arabo – recante queste parole: “Qui perì la spedizione Giulietti – 14 italiani furono barbaramente trucidati – Cristiani scopritevi – Musulmani fermatevi a salutare –

Spedizione Franchetti 24 Maggio 1929” .

Il masso con le scritte a ricordo della Spedizione Giulietti.

In verità, dopo un attento esame della scritta, si evince seppure con fatica che la traduzione del Franchetti non corrisponde al reale significato arabo, non si vede la versione in amarico come da lui scritto nel suo racconto radiotelegrafico al Corriere della Sera, inoltre la trascrizione, tratta da “Nella Dancalia Etiopica”, riporta la data del 24 maggio, mentre sul cippo è scritto 24/8/29.

Nello stesso giorno al barone Raimondo Franchetti, perveniva il seguente telegramma, inviatogli da S.E. Corrado Zoli,:

“ Sono ben lieto che pur attraverso asprissime difficoltà gravi disagi et non indifferenti rischi sua esplorazione Dancalia et regioni limitrofe siasi effettuata et compiuta senza penosi incidenti stop Particolarmente lieto che generoso sforzo suo et suoi compagni sia stato felicemente coronato da un ritrovamento che fa palpitare di orgoglio cuore di ogni italiano di ogni coloniale stop Dispongo che gloriosi resti spedizione Giulietti siano accolti a Massaua con i dovuti onori et temporaneamente depositati nella chiesa cattolica in attesa decisione Regio Governo per loro rimpatrio pur augurando che a Lei stesso sia riservato meritato onore riaccompagnare Patria resti mortali dei nostri primi eroici pionieri stop Cordiali saluti – Zoli”.

I resti della spedizione Giulietti furono trasportati a Massaua e poi, con gli onori solenni stabiliti dal governo fascista, il 24 novembre 1929 furono tumulati a Casteggio (Pavia) nell’ara dei Caduti per la Patria. Presenziarono alla cerimonia rappresentanti del governo, di tutte le forze armate e Raimondo Franchetti.

Nel dispaccio radiotelegrafico inviato al Corriere della Sera l’11 giugno 1929, il barone Franchetti così raccontò gli avvenimenti:
“Assab 9 giugno

Dopo aver attraversato internamente il deserto dancalo settentrionale, la spedizione giunse a fine aprile sull’altopiano. Prendemmo così contatto con le popolazioni Azebo-Galla e Voggerat dalle quali durante l’ultima fase del viaggio avevamo avuto qualche attacco, subito rintuzzato dalle nostre armi.

Cartina con gli itinerari del 1928-1929 della Spedizione Franchetti.

Le spiegazioni che avemmo con i capi volsero subito a dissipare la loro diffidenza ed essi tennero ad esternarci il rincrescimento per quello che era successo, dovute in gran parte al non aver capito chi eravamo e quali fosse lo scopo della spedizione. Chiarito ogni equivoco, gli Azebo-Galla e gli Voggerat espressero tutta la loro ammirazione per questo gruppo di italiani che per primo aveva osato attraversare una regione tanto inospitale e finora chiusa agli europei.

Colà la spedizione si scisse. Il grosso si diresse per Macallé all’Asmara, mentre con l’ing. Maglione e l’operatore Craveri, una leggera carovana e un plotone dei nostri Ascari, mi portai a Maiciò per tentare la traversata del deserto dancalo meridionale e ritornare ad Assab per Golima e il Terù. Tale decisione ci guadagnò definitivamente l’ammirazione delle popolazioni, meravigliate che tre Europei tentassero di attraversare per la seconda volta e nella stagione già caldissima, una zona mai percorsa dai bianchi. I capi locali vollero allora scortarci fino a Golima con i loro cavalieri e i loro armati. La spedizione così partì col seguito pittoresco di varie centinaia di uomini. La scorta ci lasciò in prossimità di Terci, ove contavamo di esplorare quella interessante regione; sennonché l’improvvisa malattia dell’ingegnere Maglione, che dovemmo cominciare a trasportare in barella, ci costrinse ad abbandonare tale progetto e a metterci invece in cammino per raggiungere celermente la frontiera italiana.

Trovandoci però in prossimità dei luoghi ove avvenne il massacro di Giulietti, pensammo che, se avessimo potuto raccoglierne i resti gloriosi, la nostra missione avrebbe avuto la migliore e meno sperata conclusione. Trovammo molte difficoltà per avere in proposito notizie esatte, i Dancali diffidentissimi e superstiziosi, non volevano darci informazioni, anche perché pensavano volessimo vendicare i nostri caduti. Finalmente nel Terù, un vecchio capo dancalo che prese parte al massacro e assistette alla sepoltura dei quattordici italiani, ci diede, con la promessa di forti regalie e sotto impegno di assoluto silenzio da parte nostra, preziose indicazioni, suffragate dal rituale solenne giuramento sul Corano.

Il vecchio capo però non volle accompagnarci, sia perché temeva di rivedere la località del massacro, che tutti i Dancali evitano, sia per il timore di rappresaglie sulle sue genti.

La memoria di quei valorosi è ancora viva nelle popolazioni locali che nella loro superstizione primitiva esse temono sempre e ancora il ricordo dei quattordici morti invendicati.

Il vecchio capo dette indicazioni particolareggiate e una nostra guida dancala raccontandomi che, dopo il massacro, i giovani che vi parteciparono non avrebbero voluto seppellire i morti, ma lasciarli in pasto alle iene. I capi si opposero per paura del Negus e fu quindi dopo lunga discussione, deciso l’interramento sommario. Le salme furono poste una accanto all’altra, come le dita di una mano, in due tumuli separati.

Giunti sul posto le indicazioni del vecchio capo risultarono esattissime e furono confermate da Dancali del luogo. I due tumuli di pietre che coprivano i cadaveri si trovavano vicino a due vecchie tombe dancale a forma piramidale, circondate dai ruderi d’una zeriba di pietra, in località Egreri, a tre giorni di marcia a nord-est di Terù. Per Egreri passa un torrente dallo stesso nome.

Con l’aiuto dei nostri ascari, ai quali spiegammo le ragioni unicamente morali e sentimentali di questa esumazione, iniziammo la mattina del 23 maggio i lavori. Essi si svolsero alacremente perché c’era da temere dai dancali e costarono fatica sovrumana. La temperatura elevatissima 65 gradi sopra zero, arroventava pietre e strumenti, rendendo un inferno la vallata dell’Egreri.

Tolti tutti i sassi le ossa dei quattordici italiani rividero, dopo quarantotto anni, la luce; ma una luce diversa da quella che vide cadere la pattuglia eroica; la luce della Patria che oggi non lascia più abbandonati i suoi figli ma li segue nel mondo, anche dopo morti. La maggior parte delle ossa, calcinate dal tempo e dal sole equatoriale, i crani ripieni di terra, si frangevano alla semplice pressione delle mani. Solo i denti erano conservati molto bene; alcuni di essi, bei denti intatti di giovani sani dicono ancora oggi la vigoria di quei marinai immolatisi per un ideale.

Raccogliemmo quello che si poté, e in presenza di armi italiane presentate in onore degli Eroi, le ossa furono messe religiosamente nel cotone e quindi in una cassetta avvolta nella bandiera della Patria lontana.

La cerimonia fu semplice e rapida, quale poteva essere nello squallore della zona e sotto il morso tremendo del sole. Al rito di pietà e di omaggio volle assistere, malgrado le sue condizioni di estremo esaurimento anche l’ing. Maglione, sorretto da due ascari. In tutti noi pur induriti dai sacrifici di sei mesi di Dancalia, era viva la commozione e mai come quel giorno ci sentimmo vicini all’Italia, che era in tutti i nostri cuori.

Ci fermammo colà poche ore, per scolpire su di una pietra la seguente epigrafe.

Qui perì la spedizione Giulietti

Quattordici italiani furono barbaramente trucidati

Cristiani scopritevi, musulmani fermatevi e salutate

Tale epigrafe fu scritta in italiano, in amarico e in arabo.

La spedizione proseguì il suo viaggi ad Assab, da alcuni carovanieri, abbiamo saputo che quel dancalo che ci fece da guida fino alle tombe e che da noi si allontanò nottetempo è stato ucciso”.

Cartina con gli itinerari del 1928-1929 della Spedizione Franchetti.

Dopo il suo ritorno Franchetti – il quale durante i suoi viaggi aveva raccolto ogni genere di informazioni ed aveva intrecciato relazioni con capi e Ras locali (ma ebbe modo di conoscere personalmente anche Hailè Selassiè) – effettuò altri numerosi viaggi in Eritrea, Somalia ed Etiopia, probabilmente per incoraggiare ed organizzare delle rivolte all’interno dell’impero etiopico, fomentando alcuni Ras, tra i quali Haylu, contro l’autorità imperiale, con lo scopo di preparare una futura invasione dell’Abissinia da parte dell’Italia.

Mercoledì 7 Agosto 1935 un aereo italiano Savoia Marchetti S81 pipistrello partito da Roma e diretto all’Asmara precipitò in fiamme a 20 Km dal Cairo, dove aveva fatto tappa ed era decollato alle 5.20 locali.

Il giorno dopo un aereo inglese rinvenne i resti bruciati dell’aereo italiano. Nell’incidente morirono Luigi Razza, Ministro dei Lavori Pubblici, il suo segretario Vincenzo Minasi, il pilota dell’aereo maggiore Raffaello Boetani, il sottotenente Giovanni Lavaggi, il marconista atlantico maresciallo Vittorio Viotti, il, motorista sergente maggiore Edoardo Pirola e Raimondo Franchetti.

Il quale ultimo – a quanto sembra – si stava recando in Etiopia per svolgere una missione segreta per conto del governo italiano (ricordiamo che l’Italia invase l’Abissinia nell’ottobre dello stesso anno).

Le cause dell’incidente risultarono misteriose (e tali sono rimaste fino ad oggi) e la stampa nazionale ed estera, all’epoca, non esitò a parlare di atto di sabotaggio. Una successiva inchiesta formulò l’ipotesi di una avaria ai motori, ma l’incidente sollevò molti interrogativi e si pensò anche al sabotaggio mediante il mescolamento di sostanze esplosive nell’olio di lubrificazione durante la sosta al Cairo: si era infatti verificata la simultanea esplosione dei tre motori. Durante i miei tre anni di permanenza al Cairo ho visitato più volte il luogo dell’incidente sito al km 20 dell’autostrada in direzione Suez dove è stato eretto un cippo ricordo con i nomi delle vittime, recante in alto una scritta “MORTI PER L’ITALIA”.

La stele è stata ora restaurata e pur di non spostare il cippo è stato anche deviato il percorso della nuova autostrada. Tutto questo grazie al Presidente della Camera di Commercio Italiana al Cairo, ex ufficiale dell’Aviazione ed alla sensibilità delle autorità egiziane.

Il Franchetti – conformemente a disposizioni che lui stesso aveva lasciate – fu sepolto ad Assab in Eritrea. Successivamente la salma fu traslata nel bel cimitero militare di Otumlo (Massaua), dove ora riposano anche i resti di tanti altri italiani che si trovavano sparsi in diversi luoghi dell’Africa Orientale come Adi Quala, Assab, Barentu, Massaua, Ghinda, Seganeiti, Decamerè, Senafè, Agordat ed altri.

Inizialmente condivideva il loculo con un altro caduto, il soldato Furioli Giuseppe; ora, dopo la sistemazione definitiva del cimitero, riposa solo e sulla lapide è stata posta una semplice scritta: “Civile Franchetti Raimondo”.

E’ stata pure eretta una stele a lui dedicata, che con poche parole focalizza l’uomo: “Esploratore, Patriota, Scrittore alfine riposa in questa terra africana che amò fino alla morte – 1891-1935”.

Cimitero Militare Italiano di Otumlo (Massaua): Giorgio Barani a fianco della stele commemorativa del Barone Franchetti (con l’errato anno di nascita).

Cimitero Militare Italiano di Otumlo (Massaua): Giorgio Barani a fianco della stele commemorativa del Barone Franchetti (con l’errato anno di nascita).

Sul luogo e data di nascita di Raimondo Franchetti esistono versioni contrastanti. Alcune fonti dicono sia nato Treviso, altre a Venezia ed altre ancora a Reggio Emilia.

La data di nascita varia dal 1889 al 1891: quest’ultima data, figura, tra l’altro, sul cippo eretto a ricordo del Franchetti nel cimitero di Otumlo (Massaua), sulla lapide posta dall’Ente del Turismo sul frontone della casa paterna a Reggio Emilia (in via Emilia S. Stefano, 33) nonché sulla Enciclopedia Italiana Treccani la quale peraltro (cfr. la voce corrispondente, app. I pag. 619) indica Treviso come luogo di nascita del Nostro. Probabilmente proprio la Treccani, che non è nuova a certe leggerezze su luoghi e date di nascita degli esploratori (il caso di Vittorio Bottego docet), ha contribuito al perpetuarsi di tali imprecisioni.

In realtà Raimondo Franchetti nacque a Firenze il 30/01/1889 alle ore undici antimeridiane, come risulta dall’Estratto per riassunto dal registro ATTI DI NASCITA della Direzione Servizi Demografici, Ufficio dello Stato Civile del Comune di Firenze, anno 1889, parte II serie B vol. I atto n. 214.
Tali dati vengono esattamente riportati, per esempio, da Vittorio Spreti nella sua Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, Milano, ed. Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, 1928-1936, alla lettera F, p. 254.

Che fosse fiorentino di nascita lo si evince pure dal verbale del collegio dei professori del novellamente istituito Ginnasio di Mestre, i quali nella seduta del 21/02/1936 proposero all’unanimità di intitolare l’istituto a Raimondo Franchetti, adducendo la motivazione seguente:

Raimondo Franchetti, benché fiorentino di nascita, è universalmente considerato veneziano, poiché a Venezia e nella vicina villa di S. Trovaso in quel di Treviso, visse a lungo e vi strinse i più cari legami di famiglia. La sua memoria è qui vivissima e venerata. Esploratore nato, abbandonò giovanissimo gli agi della sua casa nobile e illustre e si avventurò solo in viaggi lontani e difficili, tra genti e regioni poco note e affatto ignorate, tutto teso a penetrare i segreti della natura, a conoscere gli usi e costumi dei popoli remoti. Più tardi la ricca esperienza acquistata pose tutta al servizio della patria, profondendo l’avito patrimonio nell’esplorazione e nello studio delle nostre colonie dell’Africa Orientale e dei paesi contermini, seguendo la scia luminosa degli esploratori e dei martiri italiani che lo precedettero in quelle aspre vie e tra i primi agitò i problemi della nostra espansione in quelle regioni”.

Alquanto controverso è anche il giorno della morte del Franchetti, che alcuni dicono avvenuta il 7 agosto 1935, altri il giorno successivo ( cfr. Enciclopedia Italiana Treccani).

Per dirimere la questione una volta per tutte basterà rifarsi al comunicato dell’agenzia Stefani (l’ANSA dell’epoca) che il Corriere della Sera pubblicò il giorno venerdì 9 agosto 1935:

Roma 8 agosto 1935

Il giorno 6 corrente partiva da Roma l’apparecchio “S.81” destinato per usi civili nell’Africa Orientale.

Sull’apparecchio prendevano posto l’On. Razza e il suo segretario particolare dott. Minasi, nonché il barone Franchetti. Pilotavano l’apparecchio il magg. Boetani e il sottotenente Lavaggi; erano a bordo il motorista sergente maggiore Pirola e il marconista atlantico maresciallo Viotti. L’apparecchio, che aveva già al suo attivo circa 20.000 chilometri ed una precedente crociera Roma-Asmara-Roma, compiva regolarmente la prima tappa, giungendo al Cairo il pomeriggio del 6.

Il mattino successivo, alle 5,20 locali, l’apparecchio partiva in condizioni atmosferiche ottime per l’Asmara dopo aver pernottato nell’aeroporto civile di Almaza. Alle 5,31il marconista era in contatto con Montecelio ed Asmara e inviava il seguente telegramma circolare:

Numero 1 prot. Partiti Cairo ore 5,20 diretti Massaua stop a bordo tutto bene stop”. Ciò certificava che tutto procedeva regolarmente. Dopo d’allora più nulla.

Iniziatesi, su richiesta immediata dell’autorità italiana, affannose ricerche da parte di apparecchi civili egiziani e militari britannici, nel pomeriggio d’oggi l’apparecchio è stato ritrovato sulla rotta Cairo-Asmara a circa 15 miglia di distanza dal Cairo. L’equipaggio e i passeggeri sono deceduti.

Il gen. Pellegrini, con tecnici del Genio Aeronautico, è partito in volo alla volta del Cairo per una inchiesta.

Stefani

Bibliografia:

Carlo Bondavalli (con la collaborazione di Roberto Mirabile), Sulle orme del Barone Franchetti, Reggio Emilia, Magis Books Editori, 1992.

Raimondo Franchetti, Nella Dancàlia Etiopica. Spedizione Italiana 1928-1929, Milano, A. Mondadori Editore, 1930.

Raimondo Franchetti, Nella Dancàlia Etiopica. Spedizione Italiana 1928-1929, III edizione, Milano, A. Mondadori Editore, 1935.

Valeria Isacchini, Il X parallelo. Raimondo Franchetti da Salgari alla Guerra d’Africa, Reggio Emilia, Edizioni Aliberti, 2005.

Olinto Laguzzi, Raimondo Franchetti “il Lawrence Italiano”, II edizione, Genova, Associazione Nazionale Combattenti Reduci d’Africa, 1948.

Angelo Umiltà, Gli Italiani in Africa. Con appendici monografiche su esploratori e personaggi che calcarono il suolo africano dal 1800 al 1943, a cura di Giorgio Barani e Manlio Bonati, Reggio Emilia, T&M Associati Editore, 2004 (cfr. per Franchetti le pp. 541-562).

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