Massimo Ammaniti: “Il disagio esistenziale dei ragazzi va ascoltato dai prof" - la Repubblica

Cronaca

L’intervista allo psicoanalista

Massimo Ammaniti: “Il disagio esistenziale dei ragazzi va ascoltato. Tocca ai prof cambiare”

Massimo Ammaniti

Massimo Ammaniti

 
Lo psicoanalista: “Dodici anni di smartphone hanno cambiato le loro menti ma la scuola è rimasta indietro e risponde con i voti. Va ripensata anche l’edilizia scolastica”
3 minuti di lettura

«Io sono dalla parte dei ragazzi, è la scuola che deve cambiare e creare un ponte verso una generazione che sta gridando il proprio malessere». Tra i due poli il professor Ammaniti non ha dubbi: è in atto una rivolta esistenziale e sono gli adulti a dover dare risposte. «Basta con i prof in cattedra, arroccati dietro il programma, mentre migliaia di studenti sempre più smarriti chiedono di essere visti e ascoltati. O prendiamo coscienza che è in atto una mutazione antropologica dell’adolescenza, oppure perderemo il contatto con i giovani».

Da tutta la vita lo psichiatra e psicoanalista Massimo Ammaniti cura la testa e il cuore di bambini e teenager, ne ricuce le ferite, le paure, i traumi. «Mi hanno molto colpito le testimonianze dei ragazzi che su Repubblica hanno messo sotto accusa la scuola, definita il luogo che provoca ansia, malessere, addirittura crisi di panico. Come possiamo ignorare questa richiesta di aiuto?».

Professor Ammaniti, i ragazzi soffrono ma anche i docenti non sembrano stare molto meglio. Costretti a chiamare ambulanze durante lezioni, con studenti e studentesse che non riescono più a restare seduti nei banchi, in classi dove spesso si manifestano problemi di salute mentale. C’è chi dice: alziamo bandiera bianca.

«Una società adulta non può arrendersi di fronte al malessere della propria gioventù. Sarebbe come rinunciare al futuro. Ma non mi stupisce affatto che degli adolescenti della generazione Zeta non riescano a stare seduti in classe più di qualche ora e la loro attenzione sia scarsa e intermittente. La mente dei nostri ragazzi è stata trasformata per sempre dal contatto e dall’abuso degli smartphone. Lo spiega con grande chiarezza Jonathan Haidt, psicologo sociale americano, nel libro “Anxious generation”».

Generazione ansiosa, appunto. Ed è quello che dicono i ragazzi stessi: “Abbiamo l’ansia, curateci”.

«E hanno ragione. Del resto i ragazzi sono cambiati, anche da un punto di vista neurobiologico, ma la scuola è rimasta indietro, antiquata, anzi alla grande crisi esistenziale dei giovanissimi risponde tornando ai voti, alla disciplina, a una meritocrazia che non si sa bene cosa sia».

Vuole spiegare in cosa consiste questo cambiamento?

«Il 2012 è oggi considerato uno spartiacque tra le generazioni. Perché è l’anno in cui a livello di massa si diffondono gli smartphone che arrivano anche nelle mani dei bambini. Strumenti di una potenza inaudita, a mio parere anche devastante se regalati prima dell’adolescenza. A distanza di oltre 10 anni noi vediamo l’impatto che hanno avuto su menti così acerbe. Un dato su tutti: il disturbo dell’attenzione».

Quindi il mondo dell’Istruzione dovrebbe ripensare i metodi di insegnamento tenendo conto delle diverse modalità di apprendere della “Anxious generation”?

«Mi sembra l’unica strada. Altrimenti continueremo ad avere professori che parlano a una platea che non li segue più. Con la frustrazione che ne consegue. Cominciamo con il mettere un grande tavolo al centro dell’aula, a lavorare per gruppi. Anche perché l’altra faccia della tecnologia è che questi ragazzi hanno competenze nuove, sono velocissimi nell’imparare, nel creare nuovi linguaggi. Ripensiamo la nostra edilizia scolastica, pesante, vetusta che già di per sé mortifica il bisogno di muoversi nell’età in cui il corpo non può stare fermo, esplode nei cambiamenti ormonali, vuole esporsi. Sapete come si chiama? Angoscia claustrofobica».

Però professore non possiamo dare tutta la colpa del malessere giovanile agli smartphone. Possibile che a scuola vengano gli attacchi di panico? O che la competizione, come raccontava su Repubblica Zoe, di 16 anni, sia così schiacciante da portare all’abbandono dello studio?

«Gli smarphone in mano giorno e notte sono solo una parte del problema. Dietro questo malessere ci sono altri due fattori che riportano però all’incomunicabilità tra due mondi. Tra una scuola vecchia e una gioventù nuova».

Si potrebbe dire che la gioventù è sempre nuova.

«Ma non è mai cambiata con queste velocità. Mi spiego: oggi i ragazzi sono figli unici, crescono in famiglie iperprotettive, con genitori molto vicini e complici. Sono un po’ il centro del mondo. A scuola però vengono valutati con metodi tradizionali che non tengono affatto conto di loro come persone, delle loro difficoltà. E questo li schiaccia, li fa soffrire, lo ritengono ingiusto. Hanno poi una serie di fragilità che derivano dagli anni del Covid, da un futuro precario, figlio anche della caduta dell’identificazione verticale con i mestieri e lo status sociale dei genitori».

Quindi chiedono politicamente alla scuola di farsi carico della loro dimensione esistenziale.

«Sì, vogliono molto di più. Chiedono ai prof di essere educatori, di avere ruoli guida, oltre ai voti, oltre alle interrogazioni. È la prima generazione che rivendica politicamente il diritto al benessere psicologico. O la scuola si adegua o perde. È una rivoluzione se ci pensate».

E qual è la risposta dello Stato?

«Inerte, quando non repressiva. Soltanto un dato: l’Italia destina alla salute mentale meno del 3 per cento del fondo sanitario nazionale. Pochissimo. Ai giovani di questo 3 per cento vanno soltanto le briciole. Ecco la risposta».

I commenti dei lettori