Rachele e Giacobbe - Gianfranco Ravasi - Famiglia Cristiana

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Una morte materna

INCONTRO DI GIACOBBE E RACHELE - Dipinto di Erwin Speckter (1806 - 1835). Amburgo, Hamburger Kunsthalle
INCONTRO DI GIACOBBE E RACHELE - Dipinto di Erwin Speckter (1806 - 1835). Amburgo, Hamburger Kunsthalle

Alla periferia di Betlemme si leva la cosiddetta “tomba di Rachele” , trasformata dagli Ebrei in sinagoga nel 1967. Con questo segno – anche se la collocazione topografica è discussa dagli studiosi – si commemora un episodio familiare della Genesi intenso e suggestivo, nonostante la dimensione drammatica: «Rachele ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere: anche questa volta avrai un figlio!”. Ormai moribonda, quando stava per esalare l’ultimo respiro, lei lo chiamò Ben-Onì, ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. È la stele della tomba di Rachele, che esiste ancora oggi» (Genesi 35,16-20).

Il patriarca Giacobbe amava appassionatamente la bella ma sterile moglie Rachele. Alla fine, però, essa ha il dono della fecondità e genera i due figli più amati da loro padre, Giuseppe e Beniamino. Con la nascita di quest’ultimo, si introduce nella famiglia una tragedia, la morte per parto della madre Rachele. La vita coincide con la morte. La donna, sentendo venir meno lo spirito, ma vedendo il frutto del suo grembo, preannuncia una sorta di legge dell’esistenza: dal dolore nasce la vita. Ben-‘onî, in ebraico, significa “figlio della mia doglia”. Non è, quindi, un grido disperato, uscito dalle labbra di una madre in agonia. È una professione di umile speranza: il mio dolore estremo, anzi, la mia morte hanno generato la vita. Gesù riprenderà l’immagine nell’Ultima cena, anche se privandola della tragicità della vicenda di Rachele: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Giovanni 16,21).

Quella di Rachele e di Giacobbe è una storia che si ripete in alcune famiglie, che rimangono orfane di una presenza capitale com’è quella della sposa e madre, sia per un parto sia per altre ragioni drammatiche. È significativo il coraggio di Giacobbe, il marito e padre, che attinge al suo amore per Rachele la forza per trasformare quell’evento tragico in un segno di vita e di speranza. Infatti cambia il nome assegnato dalla madre al figlio nell’ebraico Ben-yamin, “figlio della destra”, cioè della fortuna, chiamandolo perciò “Fortunato”.

La carne viva di quel bambino e il suo affacciarsi all’esistenza diventano, così, la memoria permanente della madre e una ragione di vita per il padre, che nell’amore per il figlio continuerà ad amare la sua mamma e a sentirla ancora accanto. Il profeta Geremia (31,15) trasformerà Rachele nella madre di tutti gli Ebrei, soprattutto di quelli deportati e massacrati dai vari Hitler di turno nella storia, mentre l’evangelista Matteo (2,18), citando Geremia, vedrà in lei il simbolo di tutte le madri dei piccoli innocenti uccisi da Erode, capovolgendo la vicenda della Genesi e introducendo così un’altra esperienza familiare tragica, quella dei genitori che vedono morire i figli prima di loro.


27 agosto 2015

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