Quartet - la recensione del film diretto da Dustin Hoffman
Un’opera prima tutta british per il grande attore americano
Per esordire alla regia Dustin Hoffman ha scelto un’ambientazione molto lontana dalla sua California come la provincia inglese dove ha riunito Maggie Smith, insieme a Michael Gambon e molti ottimi attori inglesi in là con gli anni in una splendida dimora di campagna poco fuori Londra dal suggestivo nome di Beecham House, una casa di riposo per musicisti in pensione.
Quartet è un film “da camera”, con la consueta accuratezza formale britannica un po’ laccata ed attori impeccabili, con musicisti e cantanti d’opera in ruoli di contorno. La vecchiaia con i suoi acciacchi, il rimpianto di fama e successo ormai alle spalle e rapporti segnati dagli anni e dall’invidia sono il cuore di un film che piacerà molto agli amanti del genere.
In qualche modo il film è una versione per anziani di un college movie, al posto di giovani pieni di sogni e orientati al futuro, qui ci sono pensionati artisti che vivono di ricordi e rimpiangono il passato. Sono sempre insieme, si vogliono divertire, sono tutti della stessa età, senza parenti, genitori o figli che siano. Si creano invidie, gelosie, amori. A Beecham House il massimo è avere la marmellata di albicocche più buona o sedere al tavolo con vista sul parco mentre l’autorità è comunque vista come una grande scocciatura.
L’unico contatto con altre generazioni, a parte quello con cameriere e personale di servizio, si instaura con dei ragazzi che vengono a seguire ogni tanto delle lezioni di musica. Durante una di queste c’è l’occasione per una curiosa contro lezione di rap di un ragazzo e per abbozzare un ragionamento su come il melodramma fosse il rap dei suoi tempi, uno spettacolo popolare per tanti e non, come ora, elitario e per pochi.
Hoffman regista non è all’altezza del suo cast: scricchiolante come le giunture dei simpatici protagonisti, si limita alla bella confezione della casa di campagna, ma non sbircia troppo quello che accade di interessante al suo interno. L’agrodolce che solo qua e là riesce ad emergere lascia più spesso spazio ad un ritratto zuccheroso e prevedibile.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito