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‘Adriano Aprà’: 2 o 3 cose che ricordo del mio ex Professore

Qualche piccolo e divertente aneddoto per ricordare Adriano Aprà, che fu professore all'Università di Tor Vergata

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Con la morte di Adriano Aprà (1940-2024) scompare un importante pezzo della storia della critica. Un  professionista che ha lasciato un reale e concreto segno nello studio del cinema. Non è errato e banale utilizzare per lui il termine decano. È un appellativo che si è guadagnato meritoriamente sul campo.

Ha esordito, e proseguito fino alla vita, come critico, ma soprattutto è stato uno storico e un dinamico divulgatore culturale. Aprà ha un curriculum di tutto rispetto e a tutto tondo, con ruoli in diversi ambiti.

La Direzione del Festival di Pesaro (1990-1998) e la creazione di due Festival inusuali come il Salso Film & Tv Festival (1977-1991) e il recente FuoriNorma (2017-2023), completamente dedicato al cinema (ultra)indipendente italiano. Un festival in cui non soltanto si proiettavano film, ma si dibatteva. Come capitava in quei formidabili festival degli anni ‘60 e ’70.

Fu anche programmatore per il Film Studio e curatore di rinomate retrospettive per il Festival di Venezia. Nonché selezionatore per diversi festival e responsabile della Cineteca nazionale.

A livello di critica cinematografica, fu co-fondatore dell’innovativa e agguerrita rivista Cinema & Film (1966-1970), che prendendo spunto dai Cahiers du cinéma, importava nell’editoria e cinefilia italiana un nuovo modo di concepire l’analisi del film. Autori di molti libri, tra cui quelli monografici, editi dalla Marsilio, dedicati annualmente a un regista italiano.

E fondamentale il suo contributo storico-critico su Roberto Rossellini, regista che lui considerava il Maestro per eccellenza. Per capire Rossellini è essenziale leggere Il mio metodo, sostanzioso tomo, curato da Aprà ed edito dalla Marsilio nel 1987, che contiene moltissime dichiarazioni del regista e attente analisi della sua opera.

Però, restando in ambito librario, bisogna dire grazie ad Aprà che fu il primo a far tradurre in italiano Semiologia del cinema – Saggi sulla significazione del cinema (1972) di Christian Metz.

Vasto il curriculum che lo vede anche regista, ad esempio lo sperimentale e cinefilo Olimpia agli amici (1970), e attore “per divertimento”, come in Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri o Mosè e Aronne (1975) di Straub e Huillet.

Aprà ha coperto, giudicato e valorizzato oltre 60 anni di cinema, dai vividi anni ’60, fino al cinema del nuovo millennio, passando per i battaglieri anni delle barricate, i pregni ma cupi anni ’70 e la crisi degli anni ’80 e ’90.

Adriano Aprà, Professore universitario

A tutte queste attività, si aggiunse anche quella di Docente universitario, presso l’Università di Tor Vergata – Roma. Una professione iniziata tardi, dopo i 60 anni, e scelta non propriamente per passione dell’insegnamento.

È giusto spiegare meglio. Ad Aprà piaceva condividere la sua conoscenza, avere uno scambio dialettico con i coetanei – di età e professione – e con i giovani. Proprio come Roberto Rossellini. Ma il ruolo di docente è sempre rischioso e limitativo, perché bisogna rispettare il perimetro d’insegnamento che ti da l’università e tenere in conto che molti studenti seguiranno il corso soltanto per acquisire i crediti per laurearsi.

Sono stato uno dei suoi tanti studenti, ma non uno dei migliori, anzi. Glielo dissi anche quando lo rincontrai nel 2022 alla Mostra Internazionale del Cinema di Bracciano.

I suoi corsi di Storia del cinema italiano erano incentrati, semestralmente, su un singolo regista. Durante quei due anni in cui fui suo studente, i profili cinematografici che propose furono su Marco Bellocchio, Pietro Germi e Roberto Rossellini.

Ogni corso monografico si basava su una cernita, operata dallo stesso Aprà, delle opere più rappresentative del regista, che permettessero di avere una chiara visione del loro percorso autoriale.

Però, a conferma della caratteristica divulgativa di Aprà, aveva messo a disposizione per tutti gli studenti, presso la mediateca dell’università, tutte le opere dei registi. Erano copie in Dvd che provenivano dalle copie del Centro Sperimentale di Cinecittà.

Se a tutt’oggi è ancora abbastanza difficile reperire, ad esempio, il cortometraggio Abbasso il zio (1961) di Bellocchio, figuriamoci nel 2005.

Discorso a parte il corso su Roberto Rossellini, dedicato a tutte le opere del Maestro. Con questo mastodontico focus, Aprà voleva chiudere la sua carriera di docente e andare in pensione. Anche in quel caso, Aprà aveva messo a disposizione tutto quello che Rossellini aveva realizzato. Materiale, a quel tempo, veramente introvabile.

Per guardare i film, gli studenti avevano due modi: seguire le proiezioni pomeridiane oppure prendere a noleggio il film in programma e guardarselo a casa. Molti studenti, tra cui me, preferivano guardare i film in casa. E, nel caso, fare copia pirata del DVD.

Durante le due ore di lezione, intervallate a metà da 15 minuti per fumare, Aprà spiegava il film a braccio, senza nessun discorso preparato. Analizzava il tema, la messa in scena e le singole metafore che componevano l’opera. A volte mostrava anche qualche frammento di un film, per avvalorare la spiegazione.

Gli esami erano temuti da molti, me compreso. Ad ogni studente chiedeva due film scelti a casa e lo studente doveva analizzare il film. Aprà durante l’esame/interrogatorio ti guardava fisso, in maniera gelida. E se qualcuno diceva un’esattezza, con voce profonda e sguardo raggelante, ti bloccava.

Molti ripetevano, con dei piccoli aggiustamenti, quello che aveva spiegato Aprà durante le lezioni. Se lo ripetevi bene, il 28 era assicurato, perché confermava che almeno lo avevi ascoltato. Se sbagliavi qualcosa, il voto si abbassava. Al massimo arrivava a un 26, perché altrimenti preferiva che lo studente tornasse in un’altra sessione.

Per ottenere un 30 o addirittura un 30 e lode (voti rarissimi, quasi mitologici) era necessario dire qualcosa di originale, ma comunque pertinente. E questo poteva avvenire se si guardavano anche i film non scelti per il programma, ma presenti in mediateca. Se si facevano i collegamenti giusti, come tra I pugni in tasca (1965) e Gli occhi, la bocca (1982), questo gli dimostrava che lo studente era interessato non solo al modulo, ma anche alla professione del critico.

Ad ogni data di esame, Aprà era costretto a svolgere gli esami in almeno 2 giorni, perché gli studenti erano molti.

Riguardo il secondo modulo su Rossellini, incentrato sul periodo televisivo (1959-1977), ricordo che assieme ad altri (quattro o cinque) eravamo nel corridoio ad attendere il nostro turno per l’esame. In quell’occasione ci interrogava nel suo piccolo studio.

Tutti quanti eravamo preoccupati, perché non sapevamo cosa dire. Per noi quei film erano mediocri, rispetto a quegli degni anni ’40 e prima metà degli anni ’50. Erano didattici, e soprattutto didascalici. Personalmente, non ricordo quali film mi chiese.

Non ricordo nemmeno quali film mi chiese per il modulo di Bellocchio e per quanto concerne l’esame su Pietro Germi rammento solo uno dei due film che mi chiese: La città si difende (1951).

Pietro Germi ha avuto una carriera scomponibile in due fasi (1: neorealista e di genere; 2: commedia all’italiana). Un percorso simile a quello di Billy Wilder. La città si difende fa parte della prima fase registica di Germi, quella più debitrice del cinema americano. Un gangster movie con le dimensioni di un B-movie. A suo tempo il film fu liquidato, non ritenuto gran cosa, mentre Aprà, inserendolo nel programma, lo aveva rivalutato.

Qui è necessario aprire una parentesi. Aprà fu uno dei critici e storici italiani che riconsiderarono molto cinema in passato liquidato troppo frettolosamente dalla critica. Un occhio critico/cinefilo anch’esso acquisito dai Cahiers du Cinéma. La prima retrospettiva italiana dedicata ad Howard Hawks lo dimostra, come ugualmente la rivalutazione del “commerciale” Raffaele Matarazzo.

Nell’accingermi a parlare di La città si difende, iniziai il discorso dicendo che il film a suo tempo fu stroncato dalla critica. Aprà, con sguardo gelido e voce greve, mi rispose: “A me piace”. Quella concisa dichiarazione mi bloccò e fu difficilissimo seguire l’esame. Aprà mi ha messo sempre timore e quell’esame mi ha traumatizzato.

Fu proprio questo aneddoto che gli raccontai quando ebbi modo di rivederlo nel 2022. Lui sorrise e la moglie Stefania Parigi mi confermò con bonomia che quel film al marito gli piaceva molto. Quindi il mio errore fu esordire in quel modo.

Ripensando a tutte quelle sessioni d’esame, mi ritornano in mente anche alcune interrogazioni degli altri studenti. Tra chi sbagliava date, chi addirittura non analizzava il film, ma gli raccontava la trama. Come uno studente che raccontò tutto lo svolgersi di Roma città aperta.

Certamente Adriano Aprà era severo, però era giusto che lo fosse. La critica cinematografica è una professione seria. Non è sufficiente aver guardato una moltitudine di film e fare una analisi sommaria di quello che si è visto. La capacita di analisi deve essere corroborata da una valida scrittura.

Proprio durante il modulo dedicato a Bellocchio, Aprà ci fece scrivere un saggio scritto su un film scelto, da noi, a piacere. Voleva controllare il nostro livello di scrittura, perché essere studenti universitari non significa necessariamente che si hanno ottime doti di scrittura.

Con tono molto incazzoso, ricordo che si lamentava come molti studenti, o finanche giovani critici, non sapessero scrivere. Prese anche l’esempio dell’utilizzo del punto e virgola, che ormai quasi più nessuno utilizzava.

Purtroppo non sono stato un bravo studente. A quel tempo ero più interessato ai corsi di Giovanni Spagnoletti, dedicati al cinema americano o al cinema francese. Eppure, gli unici corsi che ricordo, con qualche dettaglio in più, sono proprio quelli di Aprà. Se guardo un film di Bellocchio, mi ritornano molte sue analisi.

La città si difende

Adriano Aprà alla Mostra Internazionale del cinema di Bracciano (2022-2023)

Come accennato precedentemente, ho rincontrato Aprà al Festival di Bracciano. Benché fosse passato del tempo, e comunque ero riuscito a diventare storico e critico, mi incuteva sempre timore. Era lì perché accompagnava la Parigi, che era Presidente di giuria.

Sebbene già ottuagenario, Aprà si metteva a parlare con i giovani organizzatori ed era molto orgoglioso che questo gruppo di ragazzi fosse riuscito a creare un festival con un’ottima selezione di opere e soprattutto con un budget esiguo.

Di quella prima edizione, oltre ad aver avuto la possibilità, durante la colazione in albergo, di avere uno scambio di opinioni con lui sull’episodico Ro.Go.Pa.G. (1963) – l’episodio di Rossellini – e su Storie scellerate (1973) di Sergio Citti.

Parlammo anche della collaborazione tra Bellocchio e Fagioli, soprattutto sull’interruzione del loro rapporto. Era curioso di poter rivedere anche l’esordio registico di Massimo Fagioli, Il cielo della luna (1997) perché introvabile. Sebbene se lo ricordasse come bruttissimo, voleva rivederlo. Il vero critico deve anche tenere in conto delle riconsiderazioni.

Gli dissi che potevo rimediarglielo. E quando trovai il DVD, gli inviai copia, più altro materiale cartaceo su Fagioli.

Questo scambio mi riporta alla mente a una situazione simile, avvenuta molti anni prima. Avevo bisogno di alcuni film introvabili e il Professore Fabrizio Natalini mi disse di contattare Aprà. Natalini però si raccomandò di non eccedere nella richiesta, di chiedere solo un paio di titoli.

Mandai la mail ad Aprà chiedendogli se poteva aiutarmi per il reperimento di alcuni film. Lui mi rispose che andava bene e mi domandò quali film mi servissero. Gli scrissi una lista di una decina di titoli. Non mi rispose più.

Però di quell’edizione del Festival 2022, è divertente citare una scena, a conferma del rispetto che Aprà emanava.

Dopo la proiezione del corto Esterno giorno (2022) di Giulia Magno, Aprà prese la parola. Per una manciata di secondi ci fu il silenzio in sala. Fece i complimenti per il corto e gli chiese dove avesse preso i provini di Monica Vitti, fatti per il provino de Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni.

Giulia Magno, dopo i complimenti di Aprà, stava quasi per piangere e svenire. Mentre un altro giovane regista, che inizialmente non sapeva chi fosse Aprà, quando gli ho detto chi era, gli ha fatto mille domande sulla storia del cinema italiano. Lui e la moglie rispondevano volentieri.

L’ho poi rincontrato per la seconda edizione del Festival. Il mio timore verso di lui era sempre lo stesso. Durante la pausa pranzo, mentre con tutto lo staff eravamo al tavolo del ristorante, diedi ad Aprà una copia di CineCritica, che conteneva un mio saggio.

E poi tirai fuori dallo zaino il catalogo del Festival di Venezia del 1980. Catalogo co-curato da lui assieme a Patrizia Pistagnesi ed Enrico Magrelli. Mi disse, questa con sguardo da adolescente meravigliato: “E questo catafalco da dove l’hai preso?”.

Lo portai in visione perché volevo chiedergli un’opinione su A idade da terra (1980) di Glauber Rocha, mastodontico e magmatico film che fu massacrato a Venezia. Mi disse che era un film importante, con momenti stupendi di cinema, ma con degli eccessi. E il massacrò che subì, fu anche per delle schermagli dentro il festival.

In questa seconda edizione ero giurato, assieme alla Parigi, e durante la premiazione, con il mio solito vizio di non tenere il microfono abbastanza vicino alla bocca, mentre rivelavo al pubblico la menzione speciale, Aprà fece: “Voce!”. A quell’intimazione, mi misi quasi sull’attenti, e riuscii ad annunciare il corto vincitore.

A fine premiazione, la Parigi, sempre con fare allegro, mi disse che non dovevo aver paura, perché quel modo di fare del marito è dettato dalla sua grande timidezza. Anzi, mi raccontò anche come si conobbero.

Mentre a fine festival, Aprà mi disse per l’ennesima volta che potevo dargli del tu. Non sono mai riuscito a dargli del tu, sia perché è stato un vero decano, sia perché e stato il mio Professore all’università.

Sono stato un pessimo studente, però quel poco di buono che so dell’analisi critica, lo devo alle sue lezioni.

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