Pinocchio Recensione

Pinocchio di Robert Zemeckis, la recensione del film con Tom Hanks

08 settembre 2022
2.5 di 5

Su Disney+ la major propone una rilettura ibrida, con riprese dal vero e CGI, del suo classico animato del 1940. Tom Hanks è Geppetto, mentre Robert Zemeckis accetta la regia con sprezzo del pericolo.

Pinocchio di Robert Zemeckis, la recensione del film con Tom Hanks

Pinocchio di Robert Zemeckis, remake del classico animato Disney del 1940, collocato su Disney+, è uno di quegli scogli assai difficili da affrontare per un appassionato di animazione e di cinema. È molto facile la tentazione di liquidare un progetto del genere come l'ennesimo, dolorosamente trionfale, remake semifotocopia che la Disney ha sfornato negli ultimi anni: c'è in ballo l'idea che un film possa essere aggiornato come un'app, cancellando la versione precedente "obsoleta", un concetto durissimo da mandar giù. L'abbiamo già scritto, siamo costretti a ripeterlo. D'altro canto però, quando ad arrischiarsi in questo territorio c'è il regista di Ritorno al futuro e Chi ha incastrato Roger Rabbit, scatta l'obbligo etico di capire. Non di farsi incantare, sia chiaro, ma di capire. Quello sì, anche solo per riconoscenza.

Pinocchio, incarnazione della potenza magica del cinema

Arrivando dopo Biancaneve e i Sette Nani del 1937, nel 1940 Pinocchio di Ben Sharpsteen e Hamilton Luske, secondo lungometraggio del canone storico dei Walt Disney Animation Studios, alzò la posta, artisticamente e tecnicamente, come non sembrava nemmeno possibile a chi era rimasto a bocca aperta poco prima per Biancaneve. Per il pubblico italiano che divide le sue radici con Collodi, magari affezionato al "neorealismo magico" di Le avventure di Pinocchio di Comencini, è forse più difficile capire l'importanza culturale che quel cartoon ebbe per più generazioni di americani: in particolar modo per la generazione dei nerd ante-litteram come Zemeckis o Steven Spielberg, che in Incontri ravvicinati del terzo tipo lo citò esplicitamente. L'esplorazione della tecnica cinematografica al servizio della creazione di un sogno: l'idea che potessi esprimere un desiderio e che il film stesso, esistendo con la potenza totale del cinema, ti confermasse che la magia è possibile. Tecnica e arte: se come Zemeckis hai consacrato la tua vita all'audiovisivo, è comprensibile che, di fronte all'idea di rivisitare questo miracolo, l'onore simbolico pesi più del timore di lesa maestà. Perché certo, da spettatore puoi elencare i cammei Disney negli orologi a cucù di Geppetto (Tom Hanks), ma è più appagante realizzare che questi pittoreschi orologi sincronizzati Robert li aveva già omaggiati. In Ritorno al futuro. E tutto torna. Cinefilia sincera, affetto reale.

Pinocchio: la ricerca dei nuovi spunti

La sceneggiatura di Zemeckis e Chris Weitz è alla ricerca disperata di uno spazio di manovra strettissimo, che non deluda chi vuole rivivere emozioni antiche: nonostante questi limiti, qualche spunto c'è. C'è l'idea che Pinocchio sia il rimpiazzo di un bimbo scomparso, per un babbo rimasto anche vedovo (in questo sembra che Zemeckis anticipi un risvolto del Pinocchio di Guillermo del Toro). C'è l'idea tenera di un mondo dello spettacolo non colpevolizzato: anche se il Gatto e la Volpe sentenziano la discutibile "Essere famosi è essere reali!", viene suggerito però che la compagnia delle marionette sia un luogo cupo solo a causa della gestione schiavistica di Stromboli / Mangiafuoco (interpretato da uno scatenato Giuseppe Battiston, con accento italiano enfatizzato in modo grottesco). È una sfumatura che non stupisce, perché Zemeckis, com'è chiaro nel finale ambiguo, vede la natura di burattino di Pinocchio più come Walt Disney vedeva la giovinezza eterna di Peter Pan: non condizioni da disprezzare, ma risorse dalle quali attingere alla bisogna. Ed è proprio il mondo dello spettacolo in fondo a dar vita a quelle fantasie. Ha dunque una funzione nobile, non di perdizione.
Si parlerà tanto (sicuramente troppo) della Fata Turchina nera di Cynthia Erivo, ma se di politica si vuole sul serio discutere, inviteremmo a concentrarci sul primo giorno di scuola di Pinocchio: in questa versione lui entra, ma lo sbattono fuori all'istante, perché diverso. Niente male come metafora, coerentemente legata a quella resistenza di cui parlavamo, della quale Zemeckis sembra soffrire. Perché dovrebbe diventare un bambino vero questo burattino? Cosa c'è di male nell'essere burattini?

Pinocchio: una grande tecnica che può solo inseguire

Ci piacerebbe poter dire che questi lodevoli timidi tentativi di deviare dal "testo sacro" disneyano (e ancor più dal collodiano) bastino a rendere il Pinocchio di Zemeckis degno di nota, o che qualche nuova canzone potenzi il materiale, ma mentiremmo. L'egregio lavoro di animazione della Moving Picture Company non può avere lo stesso significato che ebbe la conquista degli artisti Disney nel 1940: capire come bilanciare rigidità e calore nel burattino fu un'impresa storica per l'animatore Milt Kahl, ma con la CGI questo equilibrio è molto più scontato da ottenere. Stesso discorso vale per i pur ottimi Gatto e Volpe, o per l'esibizione scatenata sul palco delle marionette o per l'attacco di Monstro (la Balena), ma dove nel 1940 c'era la gioia di una frontiera superata per il cinema, qui c'è un'imitazione reverenziale e timorosa, che spreca le grandi capacità degli artisti attuali della CGI. Che meritano di continuare ad allargare le proprie frontiere (da lassù grandi artisti come Norman Ferguson, John Lounsbery, Bill Tytla o Wolfang Reitherman li benedirebbero, senza bisogno di questi omaggi diretti).
E il tocco visivo di Zemeckis si nota nel bene e nel male: nella gestione sicura della combinazione tra animazioni e riprese dal vero, ma anche nella deriva un po' vuota di piani sequenza o riprese funamboliche fini a se stesse, dove il movimento di macchina sembra autocelebrazione della tecnica cinematografica, più che interesse verso il soggetto davanti all'obiettivo. E il ricorso a questi artifici sembra tanto più forte lì dove mancano le suddette idee nuove di sceneggiatura, lasciando al regista l'ingrato compito di ripensare forzatamente le inquadrature di un capolavoro riconosciuto della settima arte. Nemmeno un grande autore degno di rispetto può uscire indenne da questa fatica di Sisifo, anche se per nostra fortuna non dirige mai con la mano sinistra. Nemmeno in questo caso.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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