Pìndaro nell'Enciclopedia Treccani - Treccani - Treccani

Pìndaro

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Poeta lirico greco (Cinoscefale, Beozia, 518 a. C. - Argo 438 a. C.). Discendente della nobilissima famiglia degli Egidi (Αἰγεῖδαι) di origine dorica, P. ricevette nella sua patria la prima educazione musicale e letteraria; la tradizione lo mette in rapporto con le poetesse Mirtide e Corinna, ma la sua formazione fu complessa, come dimostra il fatto che in Atene fu allievo di Apollodoro, Agatocle e del musicista Laso di Ermione. La sua educazione intellettuale e morale risaliva alla tradizione familiare, dorizzante, aristocratica e conservatrice, e il suo spirito religioso si nutrì del culto di Apollo e di Zeus (sembra che P. fosse molto legato al clero delfico). Le tormentate vicende della Grecia nei primi decennî del sec. 5° influirono fortemente sulla sua vita: Delfi e gran parte della Grecia settentr., compresa Tebe, la più importante città della Beozia, anche se neutrali nella lotta contro gli invasori barbarici, mostrarono di propendere verso i Persiani, e P. fu con loro. Alla vittoria ateniese (480-478) dovette seguire un periodo abbastanza difficile per P., che aveva in qualche modo condiviso la responsabilità del governo tebano. Sebbene il poeta mostrasse ormai di comprendere i valori della guerra contro il barbaro celebrando Atene e l'alleanza attico-spartana (e per questo fu onorato dagli Ateniesi con la prossenia), nel 476 abbandonò la Grecia recandosi ad Agrigento presso Terone che lo ospitò, e per il quale compose epinici e treni. Fu poi a Siracusa, alla corte di Gerone cui dedicò altri epinici. In Sicilia P. incontrò i maggiori poeti lirici del suo stesso tempo, Simonide di Ceo e il nipote Bacchilide, suoi rivali non solo nell'arte, ma nei favori della corte. Presto tornò in Grecia, dove però mantenne buone relazioni con gli ospiti siciliani, per i quali continuò a comporre. Probabilmente nel soggiorno in Sicilia venne a contatto con le dottrine pitagoriche ivi diffuse, e la sua fede religiosa si arricchì di elementi misterici. Oltre che con i tiranni siciliani, P. fu in buone relazioni con Arcesilao IV, re di Cirene, della dinastia dei Battiadi, e per lui compose l'ampia Pitica 4ª, in forma di poemetto epico-lirico di tipo stesicoreo. Tra il 480 e il 460 si pone il periodo della sua più ampia produzione, ma egli continuò a esercitare la sua arte probabilmente fino al 446, quando compose la Pitica 8ª in cui riafferma i suoi ideali aristocratici parlando ai giovani nobili di Egina. Fino alla fine il poeta si mostrò fedele ai valori del suo mondo interiore che con profonda e consapevole tristezza vedeva di giorno in giorno declinare. ▭ Dei lirici greci, P. è l'unico di cui si sono tramandati interi libri di carmi, tutti del genere epinicio, nel quale si riconobbe l'espressione più alta e caratteristica del suo genio poetico. Sono quattro libri, che raccolgono gli epinici ordinati secondo la festa panellenica per la quale furono composti: [odi] Olimpiche (14), Pitiche (12), Istmiche (7), Nemee (11); inoltre ci sono giunti frammenti di altre composizioni. Per tradizione la poesia corale (che, diversamente dalla lirica monodica, aveva i suoi presupposti in un diretto e stretto rapporto tra il committente e il poeta), e in particolare gli epinici, che celebravano con spirito eroico e religioso le vittorie agonali, davano larga parte alla narrazione mitica, i cui legami con la parte occasionale della composizione erano evidenti solo quando il poeta riusciva a trovare una relazione tra il vincitore da esaltare e le azioni del personaggio mitico: e P., scegliendo di volta in volta la favola più appropriata alla cerimonia da celebrare, si muove liberamente nella sfera fantastica del mito, del quale è narratore ispirato, e che egli talvolta corregge in funzione del suo ideale eroico e del sentimento etico e religioso. In virtù di una straordinaria potenza espressiva, creatrice di uno stile singolarissimo, sublime e severo, arditissimo e teso, P. fonde il motivo mitico con la gnome morale e religiosa (in cui si concretizza il messaggio del poeta alla società che lo circonda) in un insieme originale, la cui unità non sempre è facile a intendersi. L'immagine pindarica raggiunge la sua massima espressività attraverso scorci e illuminazioni improvvise, cariche di significati pittorici e plastici; e tuttavia l'armonia dell'insieme è quasi sempre raggiunta per virtù della costanza dei motivi interiori fondamentali. Estraneo a ogni leggerezza, il mondo poetico di P. vive al limite del sublime, raggiunto e dominato da un inimitabile senso della forma. Della potenza singolare del genio poetico pindarico fu presto consapevole il mondo antico, che lo considerò non solo ineguagliabile, ma inimitabile anche nei modi esteriori, perché, privato della purezza interiore del suo creatore, lo stile di P. apparirebbe del tutto artificioso. E in ciò è appunto la testimonianza più valida della autenticità poetica di P., nell'inscindibilità assoluta tra il suo stile e il suo modo di essere umano, morale e religioso.

L'imitazione di Pindaro nelle letterature moderne. - Sconosciute al Medioevo, le odi di P., stampate nel 1511, furono subito imitate in lingua italiana da G. G. Trissino, L. Alamanni e A. Minturno; in latino da B. Lampridio. Da Lampridio procedono le odi latine di J. Dorat, che fu maestro a P. de Ronsard; le poesie di Alamanni, passato alla corte di Francesco I, furono pubblicate in Francia; e così si giunse alla Pléiade e alle odi pindariche di Ronsard (1550-52). Da questo, più che dai precursori italiani, mosse G. Chiabrera; e la lirica grave e solenne di A. Guidi, di V. da Filicaia, di B. Menzini tentò più volte i modi pindarici. Ricordiamo poi gli inglesi A. Cowley, J. Dryden, J. Oldham. La Germania, che aveva avuto ben presto dalla scuola di Melantone la traduzione latina di P., contò pure numerosi imitatori, a cominciare da M. Opitz, fino a J. C. Gottsched e a K. W. Ramler. Il pindarismo francese vanta nel sec. 18° il nome di P.-D. Écouchard-Lebrun, che fu detto Lebrun-Pindare; nella poesia spagnola, meritano ricordo le odi di W. Fernández de Moratín. All'imitazione, che troppe volte si riduce a uno studio di congegni metrici e formali, attraverso cui la finzione retorica dà l'illusione di sentimenti eroici, si deve aggiungere un pindarismo in senso più vago e più lato, che venne di volta in volta riconosciuto nelle espressioni più elevate della lirica moderna, da Goethe a Wordsworth, da Foscolo a Leopardi. Più diretta impronta delle odi di P. si osserva, fra i poeti tedeschi, in Hölderlin e Platen; fra gli inglesi, in C. Patmore.

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