Paradise Beach - Dentro L'incubo Recensione

Paradise Beach: la recensione del survival horror in cui Blake Lively lotta con uno squalo

19 agosto 2016
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Una delle attrici più in crescita alle prese con un assolo per la sopravvivenza.

Paradise Beach: la recensione del survival horror in cui Blake Lively lotta con uno squalo

Il caldo estivo, una spiaggia incontaminata, una quiete apparente e l’arrivo di una minaccia. Sono riti di passaggio inevitabili del cinema di sopravvivenza, nel quale possiamo annoverare Paradise Beach di Jaume Collet-Serra, declinato in versione horror thriller. Se negli anni ’80 una sequela di figli e figliastri de Lo squalo e della sua apocrifa versione parodistica, Piraña di Joe Dante, hanno inondato cinema e videoteche, in questi anni di ritorno in auge di qualsiasi cosa ricordi quel decennio non poteva mancare anche il ritorno del duello fra uomo e squalo. In questa variante è una donna ad affrontare una minaccia che tale non sembra, mentre per ore dimostra la sua bravura nel surf, in quelle acque poco profonde rievocate dal titolo originale, The Shallows.

Così come il marito Ryan Reynolds aveva lottato per la sopravvivenza in uno spazio molto limitato in Buried, Blake Lively si trova costretta su uno scoglio appena affiorante dall’acqua di una baia incantata, a pochi metri dalla riva, per evitare che un aggressivo squalo bianco possa procurarle danni fatali, dopo averla costretta sulla difensiva mordendole la gamba.

Uno di quei film che gli attori amano particolarmente: sempre in scena dalla prima all’ultima inquadratura, alle prese con uno sforzo fisico superiore al consueto, messi alla prova come il personaggio che interpretano. Paradise Beach è un film in cui si parla poco, lasciando spazio ai rumori della natura e alle note musicali di Marco Beltrami, che echeggiano spesso la celebre partitura di John Williams de Lo squalo. Qui non ci sono avventatezze gratuite a scatenare la reazione dell’animale vendicativo; è una carcassa di balena a scatenare l’istintiva voglia di sangue dell’antagonista. Per fortuna è tenuto a bada il “pericolo Wilson”, dal pallone da volley con cui parlava Tom Hanks in Cast Away; la funzione qui è svolta da un gabbiano soprannominato Steven - da Steven Seagal, con un gioco di parole che rimanda alla parola inglese per gabbiano, seagull - da una Nancy in preda alle prime allucinazioni. Un paio di battute e poi il pennuto viene saggiamente spedito verso riva.

Nancy è in vacanza in Messico, alla ricerca della baia paradisiaca lontana da tutto in cui finì casualmente anni prima la madre, da poco morta, mentre era incinta di lei. Un lutto che ha sgretolato le certezze della ragazza texana fino a portarla a sospendere i suoi studi di medicina. Insomma, un viaggio dell’anima alla ricerca delle orme emotive della madre, come se non bastassero le motivazioni dell’intrattenimento puro e semplice.

Per fortuna, però, lo specialista action Collet-Serra, scudiero di Liam Nesson nelle sortite action Unknown e Non-Stop, non trascura la costruzione formale della tensione, superando con disincanto alcune dabbenaggini di sceneggiatura. Gli amanti del surf apprezzeranno in particolare la prima parte del film, molto spettacolare e senza abuso di computer grafica, che mescola con efficacia immagini aeree, carrelli orizzontali mozzafiato, con le obbligate distorsioni GoPro.

Facendo riferimento alla consueta struttura a tre atti del cinema hollywoodiano, Paradise Beach ci ha molto affascinato nei primi due, quelli della quiete, della sorpresa e della reazione della nostra eroina, mentre dell’ultimo atto abbiamo poco amato alcuni eccessi retorici, pur apprezzando alcuni svolazzi trash - spesso letterali – della parte conclusiva; come dire, Lo squalo ai tempi d Sharknado.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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