Orfani dei femminicidi, viaggio nel centro di Padova che cura le “vittime invisibili” - La Stampa

PADOVA. Orfani due volte. Eternamente vittime di un padre che ha ucciso la loro madre: un’etichetta che è stata appiccicata sulla loro pelle e che non riusciranno mai più a staccarsi di dosso. E così c’è Elena (nome di fantasia), che voleva viversi la sua vita di adolescente, ma che per tutti rimane «la figlia della donna uccisa da suo marito», e getta fuori la rabbia facendo del male a se stessa: male fisico. C’è Claudio, che cresce con il terrore di riconoscersi, un giorno, in quel mostro di suo padre. C’è Maria, che in casa non ha conosciuto che violenza, e per questo teme a sua volta di diventare vittima di quella spirale che ha schiacciato sua madre, fino ad ammazzarla.

Orfani due volte. Per loro è stato attivato un progetto, “Orphan of femicide invisible victim”, che vede lavorare insieme nove centri antiviolenza di Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, due università, quattro strutture di ricerca, due enti del terzo settore e altrettanti enti pubblici.

«Abbiamo contattato tutti i ragazzi fino ai 21 anni le cui mamme sono state vittime di femminicidio dal 2009» racconta la referente Mariangela Zanni, presidente del Centro veneto progetti donna di Padova. «Abbiamo cominciato nel 2021 e ora seguiamo 16 ragazzi. Le difficoltà arrivano dall’inizio, già per convincerli a fidarsi di noi. Parliamo di bambini che si sentono abbandonati dalle istituzioni».

La storia di Pasquale Guadagno, 27 anni, e della sorella Annamaria, 31, è emblematica. Sono i figli di Carmela Cerillo, ammazzata dal marito nel 2010, a Tavagnacco, in provincia di Udine. Anche lei era un’«orfana speciale»: sua madre era stata a sua volta uccisa dal marito, quando Carmela aveva 7 mesi. La famiglia era di origini campane, per questo un anno fa Pasquale e Annamaria avevano deciso di avviare le pratiche per trasferire il corpo a Napoli. Sono stati fermati, perché a disporre della salma di Carmela poteva essere solo Salvatore Guadagno: il marito che l’ha uccisa. E lui, nel febbraio scorso, in carcere, di fronte ai due figli che gli chiedevano di firmare il documento per consentire loro di trasferire la salma della madre, ha detto di no. Voleva cremarla, per riporre le ceneri in un’urna, da tenere a casa, una volta uscito di prigione. Alla fine la storia ha preso un’altra piega, ma rimane emblematica, per raccontare il dolore che porta con sé certa assurda burocrazia.

«Ci sono bambini che sono stati affidati alle famiglie paterne, contro la loro volontà - racconta Zanni -. Ragazzi che si rivolgono a noi, per destreggiarsi in una burocrazia inimmaginabile: per chiedere il congelamento dell’eredità e il sequestro conservativo dei beni, fino alla condanna definitiva del padre», che altrimenti continuerebbe a essere titolare del patrimonio in comune con la moglie uccisa.

La legge 4 del 2018 ha fatto tanto. Consente ai ragazzi di cambiare cognome, abbandonando quello del padre e assumendo quello della madre. Permette ai figli di essere beneficiari della pensione di reversibilità della mamma, che fino a pochi anni fa andava al marito. Ma è una strada lastricata di assistenze legali, che può durare anni e che aggiunge sofferenza a bambini già trafitti dal dolore.

Le strutture impegnate nel progetto garantiscono ai ragazzi il patrocinio gratuito dei loro avvocati, forniscono assistenza psicologica. Aiutano i figli nelle fasi più delicate della ricostruzione delle loro vite. «In tanti si convincono a farsi aiutare con l’avvicinarsi della data di scarcerazione del padre» racconta Zanni. È un trauma che si intreccia alla paura. «Alcuni ragazzi temono per la propria vita, minacciati da padri che in carcere hanno rafforzato le loro convinzioni su quanto hanno fatto, e che magari promettono che la faranno pagare anche ai figli». Il progetto, per sostenere i bambini vittime indirette di femminicidi, vive di donazioni, per il sostegno delle spese legali. Attualmente Msd crowdcaring sta appoggiando una campagna di raccolta fondi su Eppela.

Alcuni padri, in carcere, chiedono di incontrare i ragazzi. E le reazioni possono essere le più diverse: «C’è chi non ne vuole sapere. E chi, invece, cerca di mantenere un rapporto, per dare una spiegazione a quanto è successo».

Ci sono ragazzi che vorrebbero sapere cosa è accaduto alle loro famiglie, conoscere il profilo esatto del male deflagrato nelle loro case e che ha ridotto le loro vite a brandelli. E invece, dopo il dramma, sono stati tenuti all’oscuro di tutto: forse più per impreparazione e incapacità di comunicare nel modo giusto, che per vero senso di protezione nei loro confronti.

Ma questo è il lato oscuro della luna. «È il lato delle storie di femminicidio di cui non si parla» dice Zanni, «e invece vittime, assieme alle madri, sono i loro figli: con le loro aspirazioni, le loro peculiarità, i loro desideri mortificati. Adolescenti che diventano improvvisamente adulti, costretti a rinunciare agli studi, a trovarsi subito un lavoro». Orfani di una madre uccisa e di un padre che esiste, ma che è morto.

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