Non capita tutti i giorni di parlare con una leggenda della fotografia di moda, figuriamoci due. Nick Knight è un artista visionario, sempre pronto a sperimentare, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi e nuove forme, che poi ritroviamo nella sua produzione di video, scatti e sculture digitali. Ha debuttato nel 1982 con Skinhead, un libro crudo e ruvido che racconta il movimento e la cultura nei primi Anni Ottanta nell’East End londinese, e ha avuto una parte decisiva nelle carriere di stilisti come Yohji Yamamoto, John Galliano e Alexander McQueen, nonché di musicisti come Björk e Lady Gaga. Il suo SHOWStudio, aperto nel 2000, è considerato uno degli osservatori più sofisticati per capire come cambia il modo di comunicare la moda. Marc Ascoli nasce a Tunisi e arriva a Parigi negli Anni 70. In teoria dovrebbe studiare legge, ma il glamour e la vita notturna della capitale francese hanno quasi subito la meglio sulle buone intenzioni. Il richiamo della moda è irresistibile e dopo l’incontro con la designer Martine Sitbon, che diventerà poi la sua partner, capisce che forma dare alla vocazione: da quel momento la sua vita si intreccia con quella di designer e fotografi, da Jil Sander a Giorgio Armani, da Craig McDean a David Sims. Bruciando le tappe, diventa uno dei grandi art director della sua generazione. Le strade di Marc e Nick si incrociano nel 1986, quando sulla scena parigina si sta facendo notare un designer giapponese che propone abiti apparentemente indecifrabili, una combinazione mai vista di scultura e poesia alla ricerca di qualcuno che riesca a raccontarli. Quel qualcuno è Marc Ascoli, che coinvolge Nick Knight nell’impresa: i cataloghi immaginati insieme per Yohji Yamamoto fanno parte della storia della moda e segnano l’inizio di un’amicizia che continua tuttora, anche sulla cover e nelle pagine di questo numero di Harper’s Bazaar.

Come è cambiato il mondo della moda da quando avete iniziato a collaborare, trentasette anni fa?

MARC ASCOLI: «Semplice: è un altro mondo. Quello di prima è scomparso, collassato. Ma rimangono ancora le fondamenta: il bisogno di sognare, la speranza e la curiosità verso il futuro, la voglia di creare cose belle, che emozionino. Le forze che muovono questo mondo nuovo, alla fine, sono sempre le stesse».

NICK KNIGHT: «Non è solo cambiata la moda, ma è radicalmente cambiato il modo di comunicarla. Ma sono d’accordo: che tu stia girando un film, un live broadcast, pensando un progetto con l’Intelligenza Artificiale o una serie di foto devi sempre metterci il cuore, trovare la poesia che si nasconde negli abiti, portare avanti una certa idea di eleganza. Il modo in cui io e Marc guardiamo la moda è lo stesso degli inizi. La moda sarà anche cambiata, ma la nostra passione no».

Qual è l’importanza di scattare e creare un editoriale cartaceo oggi?

M.A.: «Ormai avere un magazine con cui potersi esprimere, scoprire nuovi talenti, confrontarsi con le nuove generazioni è una specie di privilegio. E misurarsi con la tradizione di Harper’s Bazaar, da Alexey Brodovitch a Fabien Baron, è davvero stimolante».

N.K.: «Ogni mezzo ha una sua velocità, un suo ritmo. Anche, anzi soprattutto, la carta. Negli ultimi cento, centoventi anni nulla ha contato, per la fotografia di moda, quanto la rivista. I mondi, le visioni degli artisti erano pensati prima di tutto per la pagina. E solo sulla pagina sprigionavano fino in fondo la loro potenza. Scattare per Bazaar poi, con tutto quel bianco che fa danzare le immagini e la tipografia, è un’esperienza unica. Forse proprio l’invenzione di questo spazio vuoto è stata una delle eredità più importanti di Brodovitch».

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Britt Lloyd

Bazaar ha anche una spiccata eredità di sperimentazioni, di rottura delle convenzioni…

N.K.: «Certo, ma questo in un certo senso è il dovere di un artista, no? Soprattutto di chi fa moda. La moda parla al futuro, quindi alla base di ogni progetto c’è sempre l’idea, la voglia di qualcosa di diverso. Non credi, Marc?».

M.A.: «Assolutamente. È un pensiero fisso. Quando vai al cinema, a teatro, a una mostra, qualcosa dentro di te sta in realtà lavorando, immaginando progetti (quindi sì, futuri) con cui scombinare lo status quo. Ogni collaborazione è frutto di una conversazione costante tra noi e tutto quello che ci circonda. La nostra dura da quel primo incontro, tanti anni fa. A volte penso sia una forma di telepatia».

N.K.: «Tra l’altro, credo ci siano molti paralleli tra Marc e Brodovitch. L’art director russo aveva un laboratorio di design da cui uscivano i migliori talenti dell’epoca: insegnava che le immagini non si costruiscono fra la macchina fotografica e la camera oscura, ma nella mente. Insegnava a essere liberi. Ai suoi studenti chiedeva una cosa sola: “Stupiscimi”. In fondo, è quello che Marc ha chiesto a me. Mi ha insegnato la passione per questo lavoro, fatto capire che non dovevo far caso né alle esigenze commerciali né a quello che avevo davanti agli occhi. Dovevo cercare, capire un’altra cosa: quello che avevo dentro».

È vero che affidandovi i suoi cataloghi Yohji Yamamoto vi ha dato una sola raccomandazione, e cioè: “Mostratemi i miei sogni”?

M.A.: «Sì, e questo sognare al futuro rimane la base del mio lavoro anche oggi, anche per questo shooting con Nick per Bazaar Italia. Il lavoro che faccio sul magazine è un messaggio di speranza: cerco di mostrare i colori, le emozioni, la personalità di una certa epoca attraverso il ritmo delle pagine e delle

immagini. Penso che il mio ruolo sia creare assieme al fotografo una storia nuova che regga la prova del tempo, che abbia senso anche tra molti anni. E Nick, in questo, è un maestro».

N.K.: «Sono sempre stato sospettoso di chi proclama che la fotografia racconti una sorta di “verità”. L’oggetto di quello che fotografo è la mia immaginazione, la mia anima. Le mie foto sono una risposta puramente emotiva a quello che mi sta davanti, fuori dalla logica e dai limiti della “realtà”. Sono un modo per comprenderla, certo, ma un modo irriducibilmente personale. E proprio per questo, credo, diventano interessanti. Con Marc il lavoro è sempre una jam session: mentre suoni vedi la musica prendere forma, con le sue armonie e disarmonie».

Nei vostri lavori c’è sempre un’idea molto precisa, e molto nuova, di femminilità.

N.K.: «È estremamente importante capire il contesto: ai tempi del lavoro con Yamamoto la maggior parte degli abiti aveva lo scopo di mostrare o scolpire busto, vita, collo. Yohji, invece, parlava di personalità, intelletto, presentava un’idea poetica e spirituale non solo della donna, ma in generale del corpo umano. Ecco, è un approccio che porto avanti tutt’ora. Nessuno si sognerebbe di chiedere a Kandinsky o Thelonious Monk qual era la loro idea di donna. E lo stesso vale per le immagini che proviamo a creare io e Marc. È una melodia astratta, che a un certo punto prende una forma concreta».

M.A.: «È così. Devi imparare ad ascoltare la melodia, a interpretarla. E quando ci arrivi, be’, allora le cose si spostano su un altro livello, sul piano, diciamo così, dello spirito. Ed è questo il piano sul quale vogliamo lavorare. Yohji diceva sempre: “Sto inventando vestiti per persone che non esistono”».

N.K.: «Penso che questa invisibilità sia alla base del nostro approccio alle immagini. Cerchiamo di rendere visibile l’invisibile, di creare qualcosa che non esiste. Mi fa sempre sorridere quando qualcuno dice che per fare il fotografo devi avere l’occhio allenato. Non è mai una questione di occhio. È sempre una questione di cuore, di intuito. Non si tratta di vedere bene quello che c’è, ma di vedere, o almeno di intravedere, quello che non c’è».

Quanto di questo intuito è guidato dalla visione del designer, dagli abiti?

N.K.: «Moltissimo, ovviamente. La storia che vogliamo raccontare è spesso già intrecciata nei colori, nei volumi, nei materiali. Quando lavori con grandi stilisti, come Yohji Yamamoto, Pier Paolo Piccioli o John Galliano, entri nel loro mondo. Il minimo che puoi fare è cercare di capire l’opera che hai davanti. E da lì inizi a costruire le tue, di storie. Quando collabori con un bravo stylist, poi, si aggiunge un livello narrativo ulteriore, in cui mondi e interpretazioni diverse si mescolano, si contaminano. Sono dialoghi, e soprattutto relazioni, che spesso durano anni».

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Mert Alas

M.A.: «E tutto questo è ancora più evidente quando si tratta di couture, dove sperimentazione, artigianalità e immaginazione hanno un ruolo fondamentale. Purtroppo è sempre più difficile lavorare in questo modo. A volte ho l’impressione che oggi ci sia un livello di cinismo, di stanchezza sempre più trasversale. Quello che voglio è far sognare di nuovo le persone attraverso la moda. Accendere in chi guarda e legge entusiasmo, desideri, passione. Come dice Nick, il nostro non è un lavoro solipsistico, è sempre una conversazione. È come far parte di un’orchestra».

E in questo mondo nuovo della moda, che ruolo immaginate per le tecnologie?

N.K.: «Torniamo all’inizio. La pandemia ci ha lasciato un mondo completamente diverso, in cui buona parte della nostra esistenza si sta spostando online. Probabilmente tra qualche anno, per una conversazione come questa, ci incontreremo nel Metaverso, ma dovremo comunque pensare a come presentarci, come costruire la nostra identità, e le possibilità si moltiplicheranno esponenzialmente. Poco tempo fa, dovevo incontrare al loro opening virtuale le sorelle Popovy, un duo di artiste russe che crea bambole incredibili. Così mi sono messo il visore e sono arrivato in questo spazio immaginifico, abitato da dolls alte trenta metri. E poi sono arrivate le artiste, in Chanel rosa e azzurro cielo. A quel punto mi sono chiesto: ma io come sono vestito? E lì mi sono accorto che, essendo entrato con le impostazioni standard dell’Oculus, sembravo uscito da Toy Story. Assolutamente inaccettabile, specie in un mondo in cui puoi essere qualsiasi cosa. Insomma, appena mi sono disconnesso ho pensato alle infinite scelte che ci troveremo davanti in questi mondi paralleli, dove comunque la moda continuerà a plasmare la nostra identità. Per ora, mi sono fatto fare la versione digitale dei miei soliti completi da uno stilista virtuale. Le possibilità sono infinite, d’accordo, ma al momento mi va ancora bene essere me stesso. Anche nel mondo virtuale».

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Scopri l'articolo anche su Bazaar Italia Issue 08, dal 1 dicembre 2023 in edicola.