Qui spoileriamo come se non ci fosse un domani. Un po’ perché in Civil War, effettivamente, il domani è fortemente a rischio. Un po’ perché il finale è finalmente eccitante per chi ancora immagina il giornalismo come uno strumento in grado di mettere paura ai potenti.
E così quando si arriva alla scena finale, coi ribelli che entrano alla Casa Bianca. Con il Presidente dei furono Stati Uniti d’America per terra, con i fucili puntati addosso. È in quel momento, mentre la Storia sta cambiando definitivamente, che entra in gioco Joel il reporter della banda dei quattro che in auto hanno attraversato il paese in piena guerra civile per fare lo scoop della vita, per intervistare il Presidente che sta per cadere. Sono arrivati giusto in tempo. E ora glielo vogliono ammazzare sotto il naso. E lui che cazzo racconta? Aveva promesso le ultime ore dell’uomo più potente d’America. Allora Joel li ferma. Ferma i ribelli. «Un momento», dice. E sottintende che non ha rischiato la vita per niente. Che non ha visto i suoi amici ammazzati sotto gli occhi per niente. «Presidente, una dichiarazione».

Un gran reportage, il via libera alla fucilazione

Il poveraccio è lì per terra, con i secondi contati. Mentre tutt’attorno è fumo, fiamme, distruzione, disperazione, sciacalli che sparano all’impazzata, la bandiera americana che è rimasta con due sole stelle. Per terra il poverino ci ricorda che la realtà cui assistiamo ogni giorno – la messinscena del potere: che sia quello politico o quello del piccolo ufficio – è solo sovrastruttura. Siamo niente. Siamo poveracci che piangono e balbettano di fronte alla minaccia di morte. Anche di fronte a molto meno per la verità. Del discorso presidenziale infarcito di retorica che apre il film, non c’è traccia. Il Presidente per terra trova la forza di ansimare: «Non lasciare che mi uccidano». E allora lui, Joel, senza sigaretta da aspirare ma fa lo stesso, ci pensa su. Riflette sul testo d’agenzia che lancerà. Ed è soddisfatto. Verrà fuori un gran reportage. Il pezzo della vita. Vincerà il primo Pulitzer della nuova America. E dice: «Sì, questa va bene». E dà il via libera alla fucilazione.

I giornalisti contano ancora

L’apoteosi del cinismo giornalistico. Una goduria. Altro che pastone col minutaggio bilanciato dal Cencelli. Interviste con domande annacquate ai nullapotenti di turno. Civil War regala un finale di pura libidine. Oseremmo dire di riscatto. Solo gli americani potevano partorire un film così. In cui i giornalisti contano ancora, vivono (e muoiono) per il loro lavoro. Civil War è un film sui reporter. Soprattutto sui fotoreporter. Sì, sullo sfondo c’è questo scenario apocalittico. Una versione bellica e feroce de La strada di Cormac McCarthy. Gli Stati Uniti devastati da una non meglio specificata guerra civile. Da un lato i ribelli che stanno prendendo possesso del paese e dall’altro la vecchia America che sta cedendo. Ma il focus è il giornalismo. Non è la melassa sulla professione che sta sparendo. Non sta affatto sparendo. Né il pistolotto giornalistico sul presunto bel mondo che fu. Il giornalismo esiste e domina adesso. E racconta la fine della più grande potenzia occidentale, almeno per come l’avevamo conosciuta. C’è la grande fotografa. C’è il reporter anziano della carta stampata. C’è l’inviato della Reuters. E c’è la ragazzina. Che poi ragazzina non è. La più giovane, entusiasta, che viene caricata in macchina. Non fa la scuola di giornalismo. Vede le persone morire davanti a sé. E vomita. Ma poi scatta pure.

Un film utopico

Negli Stati Uniti il film è partito fortissimo al botteghino. Venticinque milioni di dollari il primo week-end. Poi forse è un po’ calato, ma ha superato i cinquanta milioni di dollari. Probabilmente gli spettatori si aspettavano di più sulla guerra civile. Che c’è. Ma è sullo sfondo. Non è spiegata. Non si capisce bene chi siano i ribelli. Non è importante. Non è un film politico. È sulla passione per il nostro mestiere. E su cosa rischi per raccontare. Cosa metti in gioco. Con l’immancabile tema del ruolo del giornalista di fronte alla notizia. Anche quella che più ci fa orrore. La racconti, la fotografi o provi a impedire che avvenga? Non è casuale che per Washington si incamminino in quattro. E i due che muoiono sono quelli che per salvare i compagni scelgono di non documentare quello che sta avvenendo. La fotoreporter esperta, quella che sembra immune alle emozioni, la donna che le ha viste tutte e le ha fotografate. Proprio lei a un certo punto non regge. Si sente male di fronte al suo mondo che sta crollando. Non riesce a scattare. Tutta l’esperienza che ha accumulato, improvvisamente non serve a niente. Anche nelle catastrofi esiste un futuro. Negli Usa il ricambio generazionale lo immaginano anche sull’orlo del precipizio. Lo definiscono film distopico. Forse è più corretto utopico.