Lenin, un romanzo russo: a Mosca, a Mosca! - la Repubblica

Lenin, un romanzo russo: a Mosca, a Mosca!

Lenin, un romanzo russo: a Mosca, a Mosca!
Fatta la Rivoluzione bisogna fare la capitale San Pietroburgo, troppo compromessa con lo Zar, il 10 marzo 1918 viene abbandonata. Obiettivo: conquistare il Cremlino, cuore pulsante e simbolico del potere secolare russo. E qui si stabilirà la nuova nomenclatura bolscevica, a partire da Vladimir Ilic
11 minuti di lettura

Salirono di notte, con la città addormentata, e al mattino tutto era pronto. Avevano sostituito il carillon della Torre Spasskaja, sulle mura orientali del Cremlino, che per più di tre secoli aveva istruito le 35 campane a suonare le note dell’inno imperiale zarista, suggerendo a chi ascoltava le parole dell’eterna autocrazia: «O Dio, proteggi lo Zar/ forte e maestoso/ che regna per la nostra gloria/ sul nemico atterrito». Il 10 marzo 1918, quattro mesi dopo la rivoluzione, ormai doveva cambiare anche la musica che quattro volte al giorno scendeva dai 71 metri della torre più bella sulla Piazza Rossa, intitolata al Salvatore. Adesso anche le campane avevano il compito di annunciare l’avvento della Grande Epoca che aveva generato l’iskrà — la scintilla — destinata a incendiare il mondo: e dalla torre maestosa da quel giorno arrivò il suono bronzeo dell’Internazionale.

Non era l’unico annuncio. Due treni speciali, assemblati con le vetture imperiali e i velluti dello Zar erano pronti a partire la sera del 10 marzo da San Pietroburgo con i Commissari del nuovo governo bolscevico e le insegne della capitale, che dalla culla della rivoluzione si trasferivano a Mosca in segreto, dopo un decreto governativo capace di risolvere in poche righe la secolare competizione tra le due città. Mosca tornava capitale, rovesciando la decisione di Pietro di trasportare il trono a San Pietroburgo nel 1712, con l’ordine per più di 600 famiglie tra nobili, dignitari, artigiani e commercianti di partire al seguito dell’Imperatore. Di nuovo adesso ministri, generali, diplomatici, funzionari, cancellieri e consiglieri di Stato affollavano i treni ancora con il monogramma di Nikolaij II sulle porte, e correvano verso la nuova era senza più avere a fianco — per la prima volta — i marescialli di Corte, i ciambellani che custodivano la chiave d’oro, gli aiutanti di campo, il gran coppiere, il maestro delle cerimonie. Seduto accanto a Nadezda Krupskaja e di fronte alla sorella, Lenin per prudenza viaggiava su un terzo treno ordinario, il 4001, dopo aver vinto le resistenze nel partito alla proposta di tornare a Mosca.

La decisione era maturata prima della firma di pace a Brest-Litovsk, nel timore che i tedeschi potessero avanzare fino alla conquista di San Pietroburgo: se la città perdeva il rango simbolico di capitale, sarebbe stata meno appetibile strategicamente per i nemici. Dunque meglio spogliarla e lasciarla esposta ma nuda, spiegando alla popolazione e alla burocrazia che il trasferimento era soltanto temporaneo. In realtà la Russia diventata sovietica con quella scelta decideva istintivamente di allontanarsi dall’Europa, e come altre volte nella storia abbandonava il sortilegio anfibio immerso nelle acque mobili di Piter per proteggersi nella fissità della terraferma di Mosca. La rivoluzione confermava la divaricazione dei due destini: l’Occidente europeo si voltava verso il mare, lo sceglieva come orizzonte, superava il suo finis terrae e attraversava l’oceano, la Russia viveva la sua doppia natura eurasiatica chiudendosi nel territorio, dopo aver domato l’acqua che scorreva dal Baltico al Mar Nero nelle reti dei grandi fiumi fin dal tempo dei tempi: quando sulla corrente sacra del Dnepr viaggiava la sovranità del Gran Principe della Rus’originaria, che ogni anno al disgelo visitava i suoi territori dove riscuoteva i tributi in miele, cera, legno e pelli, per poi tornare a Kiev annunciato dal suono del corno. Prendevano forma, con il potere che si insediava a Mosca, due diverse nature frutto di due differenti culture, proiettando sulla scena europea i due nuovi punti cardinali che avrebbero orientato la modernità e inventato la geopolitica: Est e Ovest.

In qualche modo la rivoluzione tradiva San Pietroburgo che l’aveva generata, proteggendo nelle piazze e nei ponti, sui canali e nel ghiaccio la sua lunga incubazione. Nessuno sapeva che gli “anni d’argento” stavano per finire, la capitale come in un’esplosione finale di creatività e d’immaginazione prima di perdere il suo titolo inventava musiche, spettacoli, nuove forme artistiche, spargeva colori, parole, formule e suoni che ogni giorno sostituivano lo stupore della sera precedente, e non si capiva dove finiva la performance e cominciava la vita, nell’ambiguo mistero di dissolvenza della città di pietra: che come aveva avvertito Gogol, «mente a ogni ora, perché tutto intorno è inganno».

Nemmeno l’insurrezione aveva svuotato la scena di “Piter”, che vibrava la notte come la fiamma delle candele, mascherava la realtà liquida con il velo di nebbia che saliva dalla Neva per cancellare gli ultimi piani dei palazzi dei principi e le finestre illuminate delle stanze dei poeti: e sempre, comunque, illustrava le radici del male, custodite in fondo ai 13 gradini discesi da Rodion Romanovich Raskolnikov, per compiere in pochi attimi di dannazione un delitto che per 690 pagine inseguirà il suo castigo.

Inevitabilmente, la depressione aveva investito la città appena degradata, dopo che si era lasciata avvampare dalla febbre della rivoluzione. In pochi mesi, con l’immensa burocrazia della pubblica amministrazione che si precipitava al seguito della nuova capitale (dal Segretario di Collegio all’Assessore Aulico, all’Alta Eccellenza il Consigliere di Stato, su su fino al Cancelliere dell’Impero) San Pietroburgo registrò la scomparsa di 900 mila abitanti, impoverendosi nell’aumento della disoccupazione, nello spettro della fame, nell’incertezza non solo di ruolo, ma di destino. Nata per essere l’anima dell’impero di cui Mosca era comunque il cuore, che sorte avrebbe avuto la città mutilata della sua identità spirituale? Poteva spegnersi, come le insegne sopra il teatro Luna Park dove Majakovskij in maglione giallo leggeva singhiozzando i versi di Una nuvola in calzoni, o come i lampioni rotondi davanti all’Alessandrinskij affollato per Maskarad, o ancora come i fari puntati sul proscenio del Mariìnskij a cercare “la demoniaca maestria” nel balletto di Matilda Ksesinskaja, la favorita dello Zar: che nel capovolgimento della città aveva visto la sua casa sul lungofiume degli Inglesi — dove Nikolaij, giovane ufficiale della Guardia, si annunciava la sera come il Conte Volkov — diventare la sede del Comitato Centrale bolscevico. Piter, che nel canto di Pushkin era subentrata a Mosca come “giovane zarina”, ora con il declassamento gerarchico diventava improvvisamente “la vedova”, e questo lutto collettivo prosciugava l’energia notturna dei poeti di strada, riempiva di sussurri l’Assemblea Nobile, si sfogava nei combattimenti di galli al Golubjatnja, raccoglieva gli insonni nella sauna di via Konjusennaja aperta tutta la notte, si dilatava in chiacchiera infinita nei bordelli popolari a 50 copechi, affrettava il ritmo degli spettacoli serali, innervosendo i cani ammaestrati del circo Cinizelli.

Ma arrivati a Mosca, con il seguito tecnico di segretarie, centralinisti, addetti alla posta, interpreti, i bolscevichi scoprirono che gli uffici del Cremlino destinati al nuovo governo erano sgombri, ma non ancora attrezzati. Bisognava aspettare: chi quel giorno entrava o usciva dall’albergo National sulla piazza del Maneggio poteva così vedere Lenin seduto sulla sua valigia col cappotto appoggiato alle spalle, e i ministri (meno Trotzkij, appena nominato Commissario alla Guerra, rimasto ancora a San Pietroburgo) ammassati nell’atrio d’ingresso come turisti, tra i clienti che salivano e scendevano dai sei piani, con i bagagli e i fagotti sparsi intorno. Per una settimana il Capo del governo lavorò e dormì nella stanza 107. Appena entrato aveva aperto la finestra e si era affacciato sulla città e sul secondo atto della rivoluzione: dopo la presa di Piter, la conquista di Mosca.

La nuova, vecchia, eterna capitale aveva allora 777 anni, secondo la leggenda. Era lo scrigno della Russia, la sua fortezza, il rifugio e il mistero della sua potenza: nata prima di qualsiasi avventura politica, era sempre risorta dopo. A due passi dal National, dentro la Porta della Resurrezione che introduceva alla Piazza Rossa, nella sua cappella in miniatura vegliava sulla città la Madonna Iverskaja con in braccio il bambino, abituata a ricevere l’omaggio dello Zar e anche il suo raro inchino, ogni volta che Nikolaij II veniva a Mosca. Nell’agosto del ’17 si era inginocchiato davanti alla sacra icona anche il generale Lavr Kornilov implorando la benedizione della Vergine per il suo progetto di dittatura controrivoluzionaria, prima di marciare su San Pietroburgo, arenarsi nella notte bianca e finire agli arresti in un monastero. Lenin doveva evitare errori. La città aveva opposto resistenza alle Guardie Rosse, con scontri feroci per otto giorni: andava intimidita e sedotta, con un progetto di trasformazione e modernizzazione, salvando il suo profilo storico. Come se il nuovo piano di elettrificazione avesse dato una scossa alla capitale, si incrociavano qui progetti, disegni, planimetrie, mappe e sogni di grattacieli orizzontali, monumenti alla Terza Internazionale, nuovi quartieri operai come il Sokol, anelli trasparenti per mostrare “l’alimentazione popolare” all’esposizione agricola: era l’idea urbanistica e artistica della “Novaja Moskva” per ricostruire 20 mila ettari della capitale ritrovata dopo 206 anni, affidando agli architetti la propaganda monumentale del giovane secolo bolscevico, conservando la cabala del suo sviluppo concentrico con una nuova gigantesca circonvallazione, per arrivare alla vetrata composta da cinque cilindri del club operaio Burevestnik o alla casa comune per famiglie, senza cucine private ma con una mensa per 780 inquilini. È Mosca che “fa girare la testa” a Pasternak, con isole di bellezza «che entra nella nostra vita dai vetri delle finestre», mentre i rumori dei pattini di ferro delle slitte irrompono nelle pozzanghere, fendono una brodaglia di ghiaccio, bucano la nebbia dove spariscono i campanili, e se si passa accanto al conservatorio nell’ora delle prove mattutine si può incrociare la musica che indugia sul palcoscenico, poi trova l’uscita nelle porte spalancate per le pulizie e si diffonde a balzi nei vicoli. Mosca dove Majakovskij spia «l’agonia di un lampione calvo» che «lascivamente sfila/ alla strada / una calza nera», e Anatolij Mariengof vede gli innamorati correre per la Sucharevka comprando chili di farina da regalare alle fidanzate, mentre Boris Jampol’skij sale le scale buie e rimbombanti delle vecchie case in coabitazione sull’Arbat, «con la lampadina polverosa, le porte istoriate di scritte oscene, e dietro strepita la radio, con la vita in comune che sintonizza tutti sulla stessa lunghezza d’onda».

È «la grande, enigmatica Mosca» di Mikhail Bulgakov, «il pentolone dove sta cuocendo la nuova vita», che gli è apparsa sotto vetro alla stazione «in un blocco di tenebra e luci». Ritrova ancora quel contrasto sul tetto della Casa dei Soviet a nove piani: da lassù l’abisso della capitale si rivela coperto da qualcosa che non è fumo né nebbia, ma un velo da cui spuntano tetti, ciminiere, cupole, e sugli anelli dei “bulvar” ecco le scie di luci e raggi luminosi, “che sembravano tremare”. Con le luci, ecco le voci, perché Mosca parla, come dirà Julij Daniel, e Bulgakov la sente «borbottare, ronzare dal di dentro». Chiarori, suoni: e odori. L’effluvio “straordinario” dei lillà, il giorno in cui il Maestro incontra Margherita, l’«odore del secolo del vapore e dell’elettricità» nelle pagine di Nina Berberova, dove si ferma il sentore del cuoio bagnato nei mantici delle carrozze, il ristagno russo secolare che Pasternak va a cercare negli uffici postali, «ceralacca, colla da falegname, cotone e iuta per cucire i sacchi». Fino ad arrivare alla domanda conclusiva di Varlam Salamov, che sarà l’autore dei Racconti di Kolyma sull’inferno della deportazione: «sotto il comunismo ci saranno ancora dei profumi»?

Ma per Lenin Mosca ormai voleva dire una cosa sola: il Cremlino. Lo Zar era stato trucidato con tutti i discendenti ma gli sopravviveva la memoria, con i luoghi dov’era passata la storia dei Romanov che ancora pretendevano devozione.

Bisognava inseguire l’ultima ombra sventurata di Nikolaij, la nevrosi religiosa consegnata a Rasputin dalla zarina Alix, l’impronta malata dello zarevic Aleksej, occupare il loro spazio imperiale, spodestandoli infine dalla tradizione popolare dove continuavano a sopravvivere nel culto clandestino degli eterni sudditi: con i contadini che offrivano il pane e il sale agli impostori del falso zarevic, e le vecchie che tenevano il lume sempre acceso davanti all’immagine sacra della famiglia imperiale, convinte comunque che un giorno l’imperatore sarebbe uscito dal mistero e dall’icona per mostrarsi ancora alla sua gente. Il Cremlino da solo spiegava e chiariva ogni cosa, esaltava e assorbiva tutto, impersonava il principio russo di realtà, a cui si subordinava anche la storia, disciplinandosi. Chi lo conquistava dominava il Paese: chi lo abitava si investiva dell’autorità sovrana sorvegliata da 20 torri e custodita nei secoli dai due chilometri e mezzo di mura alte fino a 17 metri, spesse 5, con 1073 fessure merlate.

Lenin attraversa la torre Spasskaja e porta i bolscevichi nel sacrario imperiale, col comunismo fatto Stato che entra da padrone nella fortezza ammutolendo le campane e sbarrando le porte delle chiese raggruppate proprio qui, dentro le mura, per venerare il Dio della Russia insieme con lo Zar, nella cattedrale della Dormizione che ha benedetto tutte le incoronazioni e nella cattedrale dell’Arcangelo, sacrario dei re medievali che assistono alla rivoluzione allineati nelle loro tombe: l’ideologia soppianta la teologia. Al Cremlino mancano ancora i telefoni e la luce nei nuovi uffici, ma Lenin non aspetta, e occupa le prime due stanze pronte nella Cavalleria, poi si sposta in un vero appartamento con biblioteca e 18 mila libri al secondo piano del palazzo del Senato. Nomi sacri ovunque, vestigia imperiali, circondavano lo Stato bolscevico nascente. Nessuno riuscì a trovare il leggendario bastone di Ivan coi preziosi incastonati nell’osso dell’unicorno, il baldacchino d’oro sotto il quale Caterina scendeva a visitare i sepolcri, i bubboni della peste affiorati nel prodigio sull’icona della Madonna: ma bastava salire i cinquantotto gradini di marmo per entrare nella sala del trono e arrivare di fronte al baldacchino d’ermellino, dove lo Zar sedeva davanti ai 150 membri del Consiglio, avendo al fianco il Gran Comandante del Silenzio, nella sua veste dorata. Adesso il trono è sparito, e al suo posto c’è un lungo tavolo bolscevico coperto da un drappo scarlatto.

Molti Capi rivoluzionari non avevano mai visto il palazzo degli Zar, nemmeno Trotzkij che di tutta Mosca conosceva soltanto la prigione Butyrki dov’era stato incarcerato per sei mesi alla fine del secolo. Entrò al Cremlino per la prima volta da Commissario alla Guerra e prese casa nel palazzo dei Cavalieri, di fronte al palazzo dei Divertimenti. Soltanto un corridoio lo separava da Lenin, la sala da pranzo era in comune. Vladimir Ilic e Lev Davidovic nei primi giorni si guardavano intorno tra i mobili di betulla, l’orologio che sul camino batteva indifferente le ore per gli zar e per i bolscevichi, i piatti di corte ornati con l’aquila bicipite che il vecchio lacché Stupiscin posizionava sul tavolo all’ora del pranzo.

Dappertutto, si lamentava Trotzkij, «origliava nascosto il passato» disfacendosi, e da ogni specchio dorato «emanava il sentore di una signoria oziosa». Per i bolscevichi, con le loro mogli, era una vita rivoluzionaria di gruppo: Lev Kamenev, che aveva sposato la sorella di Trotzkij, andò a vivere anch’egli nella Cavalleria, dove arrivò presto Stalin, prima in coabitazione con Molotov, poi con la giovanissima assistente Nadezda Allilueva, che diventa sua moglie e segretaria di Lenin: e che il 9 novembre 1932 in quelle stanze dove dormiva ormai sola morirà per un colpo di pistola, che Nikita Kruscev definirà «misterioso».

Ma in quel marzo 1918 l’avventura è appena incominciata. Più di mille persone lavorano al Cremlino, ci sono incroci di famiglie, parenti chiamati a vivere dentro la fortezza come la sorella di Lenin, Anna, serate trascorse insieme davanti a un film, pasti monofamiliari o collettivi, comunque preparati dalla cucina bolscevica del Cremlino e portati a casa, mentre quando la rivoluzione ha fretta si può pranzare alla mensa del palazzo (300 grammi di carne o pesce per persona a pasto) dove comunque è sempre disponibile il caviale rosso, che con la guerra non si può più esportare.

Stalin e Nadezda vivono in un appartamento più diviso che condiviso, con un poliziotto armato sempre davanti alla porta, e lui si assopisce nello studio, spesso senza nemmeno andare a letto, ma comunque accanto alla “vertushka”, il telefono collegato al centralino del governo, con cui può chiamare chiunque dovunque. Lenin lavora tra le sue carte fino alle cinque del pomeriggio, poi va nell’appartamento e torna in ufficio alle sette per le discussioni notturne. Pretende la massima puntualità per l’inizio delle riunioni, fissa le multe per chi trasgredisce, vieta il fumo nella sua stanza, impone a tutti interventi brevissimi.

Dal Cremlino monitora gli effetti della Nep, col mercato cacciato dalla teoria rivoluzionaria bolscevica e riammesso nella pratica di governo, per rivitalizzare un’economia boccheggiante e i negozi di Stato vuoti: vede ricostituirsi subito un embrione di ceto borghese resuscitato dall’iniziativa privata, legge i rapporti che fotografano i nuovi ricchi mentre entrano nei ristoranti privati coi camerieri che spalancano la porta al Teston, documentano i bordelli di piazza Trubnaja che dopo mezzanotte diventano bische fino all’alba, spiano le sfide al biliardo sulla Neglinnaja, registrano l’arrivo a Mosca del cognac d’Armenia, contano le auto lucidissime che attendono il ritorno dal teatro Gitis di pellicce profumate e scarpe nere di vernice arrivate da Helsinki. Come finirà?

Nel silenzio del palazzo del governo, dal corridoio, ora si sente solo il rumore sommesso del fuoco, nelle stufe a legna del Cremlino. Per arrivare da Lenin bisogna attraversare una grande stanza quadrata, dove lavorano tre segretarie fisse, e una supplente. Poi si entra in un ufficio in penombra con una grande scrivania massiccia, ministeriale, vestita di tela cerata nera con il telefono a manovella di lato, i suoni abbassati e una luce rossa che pulsa ad ogni chiamata. Alle pareti due carte geografiche tra le librerie girevoli, davanti una poltrona per gli ospiti. Un fascio di luce scende dalla lampada verde che incombe alta, illuminando i fogli sul tavolo.

Vigila su ogni cosa Karl Marx, convocato come protettore e testimone nel ritratto appeso allo stesso muro che aveva custodito i trecento anni di regno dei Romanov. A pochi chilometri da Mosca si aprono le dacie del potere, dove si sposta tutto il Politbjuro nei giorni festivi. Si dice che la più bella sia quella di Molotov e di Polina Zemcuzina, vicina alla dacia di Stalin, che infatti preferisce spostarsi da loro per cena. Lenin e Nadezda hanno scelto il villaggio di Gorkij, con la villa del generale Rejnbot, dove il parco ricorda a Vladimir Ilic il verde della campagna svizzera, più spettinato.

Invitata a sorpresa, Angelica Balabanoff pranzò su un piccolo terrazzo coperto, insieme a cinque bambini figli di contadini della zona, e due gatti: il pane, lo zucchero e il formaggio erano arrivati a Gorkij dai contadini dei poderi vicini, omaggio popolare e rituale al nuovo padrone del Cremlino, prova di venerazione e sottomissione. Tornata all’Hotel National a Mosca, Angelica vide anche l’altra faccia della rivoluzione, quando fu avvicinata da una vecchia dijurnaja, che indicò con un gesto la cassaforte incassata nel muro: «Balabanoff? Ricordo benissimo i suoi parenti, tenevano qui i loro gioielli. E oggi lei, poverina, non ha neppure un pezzo di pane da nascondere ai topi».

Il vecchio e il nuovo mondo si contraddicevano a vicenda, a pochi passi dal Cremlino ormai bolscevico. Uscendo ogni giorno in auto dalla galleria sotto la torre del Redentore, all’ultima curva Trotzkij si trovava immancabilmente davanti, benedicente, una vecchia icona superstite. Ripartiva subito, ma solo dopo aver controllato ogni volta con un’occhiata che il lumicino della sacra adorazione fosse ormai spento.

3.segue

I commenti dei lettori