Midnight Mass - Recensione

Dove Mike Flanagan trova tutte le parole giuste.

Midnight Mass - La recensione

LA RECENSIONE IN BREVE

  • Midnight Mass ha sicuramente l’ambizione di parlare di massimi sistemi, ma ha anche la capacità di concentrarsi sul molto piccolo.
  • Kinghiana ma non solo, si tratta dell’opera dove Mike Flanagan trova un equilibrio in queste parti, ma anche quella in cui mostra più di sé.
  • Il regista attinge all’esperienza del folk horror per rappresentare l’isolamento psicologico e fisico che vivono i suoi personaggi.

Quando ci si avvicina a un’opera narrativa, di qualunque natura, si lavora su due piani: uno, analitico, razionale, è quello in cui si estrapolano i dati, si trasformano in informazioni, per poi instaurare connessioni; l’altro, emotivo, istintivo, è quello che fa percepire le cose, più che vederle e ascoltarle. Sentirle in maniera tattile. Ognuna di queste dimensioni non può fare a meno dell’altra, non solo di fronte alla fruizione, ma anche alla più profonda comprensione dell’opera. Talvolta, i due piani non sono in equilibrio. Talvolta, ciò che conta di più è quel legame irrazionale che si instaura con la narrazione e i suoi personaggi. Di solito succede quando una storia è scritta proprio per diventare anche la nostra. Toccarci nel profondo, entrarci sotto pelle. Ed ecco qui, siamo ancora, stranamente, nel campo semantico del tatto.

È difficile scrivere di Midnight Mass, miniserie horror creata e diretta da Mike Flanagan e appena uscita su Netflix, senza chiedersi: «cosa e quanto significa per me questa cosa che ho appena visto?». Senza entrare in una dimensione personale e farsi domande su di sé, perché l’intera vicenda raccontata in questi sette episodi viene costruita intorno a un’unica, grande paura. La più grande di tutte, la paura della morte. «Cosa accade quando moriamo e come possiamo evitare che tutto finisca?». Sembra una domanda antica, complessa e importante, per rispondere alla quale sono nate mitologie, religioni, filosofie, letterature. Anche molte storie dell’orrore, se ci pensate, nascono dall’idea che ci possa essere, in qualche modo, una possibilità di sopravvivere alla morte, o continuare a esistere, anche in forma mostruosa. La questione, dunque, sembrerebbe fuori scala rispetto alle potenzialità di una serie TV il cui scopo è, innanzitutto, intrattenere. Eppure, chi dice questi due aspetti non possano coesistere?

Fin dagli esordi, dall’horror multidimensionale a basso costo Absentia (2011), il film di possessione giocato su due piani temporali Oculus (2013) o il thriller senza dialoghi Hush (2016), Flanagan ha dimostrato di essere un regista incline alla sperimentazione, capace di mescolare i registri e i linguaggi. Soprattutto, interessato a utilizzare l’orrore come strumento di indagine dell’animo umano, senza però rinunciare alla natura più popolare e ludica del genere. Questa, penso, sia una di quelle caratteristiche per le quali sia stato spesso paragonato a Stephen King per stile e modalità narrative. E in effetti, negli anni è stato chiamato a girare ben due adattamenti del Re, Il gioco di Gerald (2017) e Doctor Sleep (2019). Kinghiane, d'altronde, erano anche le serie prodotte da Netflix: la bellissima e straziante The Haunting of Hill House (2018), tratta dal capolavoro di Shirley Jackson che, guarda caso, rappresenta uno dei modelli di riferimento dello scrittore del Maine, e la forse un po’ meno riuscita The Haunting of Bly Manor (2020), tratta dal più classico dei classici gotici, Giro di vite di Henry James, che nel tentativo di attualizzarlo, rinunciava all’ambiguità distintiva del romanzo.

Sembra King ma non è

Lo dico ora, a scanso di equivoci: Midnight Mass è la cosa migliore realizzata da Mike Flanagan finora. L’opera in cui il regista americano trova un equilibrio in queste parti, ma anche quella in cui mostra più di sé. La storia è originale, ma sembra scritta da King - come dice un po’ chiunque. Lo dico anche io, ma in fondo la voce dei maestri si intravede sempre nel lavoro degli allievi, quasi come se fosse un’eredità. In particolare, nella serie si può sentire l’influenza di un romanzo specifico di Stephen King, che non posso citare perché saperlo significherebbe svelarvi una svolta fondamentale e rovinarvi l’esperienza. Tuttavia, emergono sostanziali elementi di originalità, in una miniserie che ha sicuramente l’ambizione di parlare di massimi sistemi, ma che ha anche la capacità di concentrarsi sul molto piccolo. In questo caso, sulla minuscola isola di Crockett Island, in cui, prima del tragico naufragio di una petroliera avvenuto vicino alla costa, vivevano poche centinaia di persone. Ora che la pesca è diventata quasi impraticabile a causa dello sversamento del petrolio, la comunità, se ancora si può chiamare tale, può contare solo una manciata di abitanti, tutti raccolti intorno a una piccola chiesetta cattolica di legno, St. Patrick’s Church, dove tiene messa l’anziano monsignor Pruitt. Su Crockett Island vive la famiglia di Riley Flynn (Zach Gilford, Friday Night Lights), che ha passato gli ultimi quattro anni in prigione dopo aver ucciso una giovane donna mentre guidava in stato di ebbrezza.

 
Riley è bloccato dai suoi sensi di colpa e ossessionato dai "fantasmi" del passato.

Il primo episodio, Genesi, si apre in medias res proprio su quell’incidente, sulle note dolci e malinconiche di And The Grass Won't Pay No Mind. Listen easy, you can hear God calling, «ascolta con calma, puoi sentire la chiamata di Dio» canta Neil Diamond, mentre Riley recita l’ultima preghiera seduto sull’asfalto, con lo sguardo sugli occhi vitrei della sua vittima che lo fissano. Riley non pregherà più in questo modo, ma soprattutto non crederà più. Oggi, tornato sull’isola dopo aver ottenuto la libertà vigilata, non può perdonarsi. È bloccato dal senso di colpa, perseguitato dai fantasmi del passato, in cerca di redenzione. Le parole su cui si fonda la dottrina cristiana - fede, colpa, perdono - sono le stesse intorno a cui ruotano le vicende raccontate in Midnight Mass. A questo punto non sappiamo ancora dove ci porterà Flanagan, ma abbiamo un’idea di cosa stia parlando.

Riley Flynn è praticamente un estraneo, dal punto di vista degli abitanti dell’isola. Trasferitosi sul continente per far fortuna, mancava da Crockett Island da ben prima del tragico incidente. Il suo arrivo coincide con quello di un’altra figura esterna, il misterioso padre Paul (Hamish Linklater, Legion), arrivato in sostituzione di monsignor Pruitt, vittima di un malore durante un pellegrinaggio a Gerusalemme. Padre Paul sembra la persona giusta al momento giusto: molto più giovane e in salute del suo predecessore, pare avere la dedizione e la capacità affabulatoria necessaria per riunire la cittadinanza intorno alla chiesa. Nasconde qualcosa, certo, ma le sue intenzioni appaiono buone e, tutto sommato, Crockett Island sembra averne bisogno. Bisogno, ecco un’altra parola chiave che si lega alla dimensione religiosa: bisogno di credere, di ottenere risposte e protezione di fronte alla paura di vedere la propria esistenza minacciata da forze incontrollabili, ma anche di riconoscersi simili ad altre persone, formare una comunità basata su credenze condivise, conformarsi.

 
Anche senza approfondire tutti i personaggi allo stesso modo, Midnight Mass riesce a essere un racconto corale efficace e coinvolgente.

Anche Erin (Kate Siegel, moglie di Flanagan e sua partner creativa storica), è tornata da poco sull’isola. Anche lei, come Riley, ha trascorso molto tempo a fuggire dal suo passato. Ora è incinta, è subentrata al posto della madre defunta come insegnante della scuola e, in un certo senso, avverte quello stesso desiderio di essere parte di qualcosa. Invece, lo sceriffo Hasan (Rahul Kohli), di religione musulmana, è finito su Crockett Island con suo figlio quasi per caso, per sfuggire dal pregiudizio della città e trovare un posto tranquillo dove vivere in pace. Nonostante rappresenti, di fatto, l’autorità, nel piccolo centro raccolto intorno alla chiesa cattolica è guardato con sospetto, come un elemento estraneo che non vuole uniformarsi, in una visione dell’alterità concepita come opposto dell’identità. Bev Keane (Samantha Sloyan), fanatica religiosa che ha acquisito un ruolo di rilievo nella comunità assistendo il vecchio monsignor Pruitt (e riciclando, forse, i soldi delle offerte), guarda Hasan come una nemesi, un pericolo per il distorto ordine divino in cui crede ciecamente, tanto da interpretare le Scritture alla lettera per raggiungere i propri obiettivi. È immediatamente chiaro che Bev sia il vero mostro di questa storia, quello che fa più paura, e Samantha Sloyan è straordinaria nel darle voce e forma con una delle migliori interpretazioni della serie, superata solo da quella potentissima e sofferta di Hamish Linklater.

Basta un pizzico di folk horror

Insisto sull’elemento dell’estraneità e del movimento dei personaggi da fuori a dentro, dal continente all’isola, perché se da una parte si tratta per la maggior parte di personaggi che ritornano nella città natale, come tornavano anche i Perdenti nell’IT di Stephen King, è pur vero che Flanagan qui sembra discostarsi da quel modello, attingendo invece alla struttura folk horror.

Permettetemi una piccola digressione. Sottogenere caratterizzato da elementi folklorico-magico-religiosi nato in seno al cinema horror britannico degli anni ’60 e ’70 (​​se avete visto The Wicker Man di Robin Hardy del 1973, sapete di cosa sto parlando), il folk horror è stato recentemente protagonista di una vera e propria rinascita, al cinema, come in televisione. Si tratta, ci tengo a sottolinearlo, di un termine retrospettivo, un’etichetta descrittiva per evidenziare un approccio al genere horror che presenta una struttura spesso ben riconoscibile. Qualche esempio? Kill List (2011) di Ben Wheatley, The Witch (2015) di Robert Eggers, Midsommar (2019) di Ari Aster, la serie tv The Third Day (2020) con Jude Law prodotta da HBO. Ci tengo particolarmente a ricordare quest’ultima perché ritengo abbia in comune con Midnight Mass non solo l’ambientazione (si volgono entrambi su un’isola da cui non si può scappare), ma anche un approccio molto intimo al tema del senso di colpa e all’elaborazione della perdita.

 
Nel folk horror si possono riconoscere tratti narrativi che hanno conseguenze causali e interconnesse: ruolo del paesaggio, isolamento, ma anche alterazione del sistema morale ed etico, e un avvenimento in cui culmina la narrazione. Tutti elementi che si trovano in Midnight Mass.

Ecco, Flanagan attinge all’esperienza del folk horror per rappresentare l’isolamento psicologico e fisico che vivono i suoi personaggi, ma anche per definire lo stretto legame che esiste tra loro e il paesaggio circostante, che diventa strano, insolito e perturbante, anche grazie alla fotografia plumbea e spettrale di Michael Fimognari. E come in un folk horror, anche in Midnight Mass il passato infesta il presente come un fantasma, come «ciò che non è né presente, né assente, né morto» (una sensazione di disgiunzione temporale ontologica che viene chiamata hauntology).

«Questa non è una comunità, tesoro», dice Annie Flynn (Kristin Lehman) al figlio Ryan «È un fantasma». Questa sensazione è amplificata da alcune scelte di regia programmatiche. A Flanagan piacciono le inquadrature pulite e simmetriche, ma talvolta invece sceglie di rompere l’equilibrio, indugiando su tagli obliqui e riprese dall’alto che deformano le linee dello spazio, oppure esasperando i movimenti di macchina e ruotandoli di 90 gradi, per esempio nelle scene in cui Riley si trova ad aver a che fare con i suoi “fantasmi”. L’effetto è, come scrivevo anche prima, strano, insolito e perturbante. Weird e uncanny, direbbero gli inglesi, che spesso hanno termini più appropriati dei nostri per dire certe cose.

Religio et horror

C’è qualcosa in Midnight Mass che vive oltre l’inquadratura, una sensazione di inquietudine che poi prende forma nel terzo, bellissimo episodio, Libro III: Proverbi, in cui assistiamo a uno svelamento cruciale. Così presto? Beh, Flanagan non è M. Night Shyamalan e la storia non si risolve nel twist. Ci viene raccontato attingendo all’immaginario della Via Crucis, con modalità che ancora una volta svelano il gusto di Flanagan per la sperimentazione ed echi de L'esorcista (1973) di William Friedkin, in particolare dell’incipit ambientato a Ninive in cui facciamo la conoscenza con Pazuzu, e di Jerusalem's Lot, il racconto più lovecratiano di King.

Flanagan deforma in maniera elegante, ma percepibile, lo spazio utilizzando riprese dall'alto che guardano alla scena con uno sguardo perturbante.

Mi piacerebbe potervi svelare di più della trama. Mi piacerebbe dirvi quale motivo tradizionale della narrazione dell’orrore Flanagan riprende e trasforma, dando nuova linfa a un filone che troppo spesso è sembrato esaurito. Ma vi farei un torto e l’unica cosa che conta qui è permettere a Midnight Mass di sorprendervi e, come dicevo prima, entrarvi dentro, facendo diventare questa storia anche la vostra storia. Perché è proprio a questo punto che il regista rivela la sua intuizione, potentissima, e la serie diventa quello che ha sempre voluto essere: una riflessione sulla fede, ma anche sulla mancanza di fede e sul fanatismo, che traccia paralleli arditi ma puntuali tra religione, folklore e letteratura. L'elemento orrorifico finisce per essere strumento per dire altro e forse questo è uno dei più grandi difetti e allo stesso tempo pregi della serie.

Flanagan lo fa letteralmente, dire altro intendo, affidando a Kate Siegel e Zach Gilford, Erin e Riley, tre monologhi che rispondono alla domanda che ponevo prima: «cosa succede quando moriamo?». Soprattutto l’ultimo dei tre raggiunge un’intensità tale da lasciare senza fiato. O almeno lasciarmi. Dicevo in apertura che non si può parlare di questa serie senza andare sul personale. C’è una cosa che Flanagan ha fatto per me: darmi le parole giuste per parlare di quello più che mi spaventa di più, il motivo per cui credo di essere così appassionata di film dell’orrore, e togliere la paura dall’equazione. Lo ha fatto attingendo alla sua esperienza personale di persona cresciuta in una famiglia cattolica e oggi non più credente, senza l’intento consolatorio dato generalmente dalle narrazioni religiose sull’aldilà, ma anche rispettando intimamente le idee e le credenze di chiunque.

Ed è sorprendente come, nonostante tutti i riferimenti alla dimensione più orrorifica, nonostante le influenze illustri, l’opera più simile, nello spirito, negli intenti, nella capacità di coinvolgere emotivamente, sia The Leftovers, la bellissima serie di Damon Lindelof e Tom Perrotta del 2014 in cui parte della popolazione mondiale spariva nel nulla. Profondamente religioso, soprattutto nel senso "psicologico” del termine, The Leftovers, era allo stesso tempo fortemente critico nei confronti della tendenza del tutto umana a creare le proprie credenze per dare fondamento sacrale a tutti gli avvenimenti della vita. Potrei usare queste parole per descrivere Midnight Mass, oggi, sei anni dopo, nonostante le due serie formalmente non assomigliano per niente. Come The Leftovers, alla fine anche Midnight Mass sembra una sorta di terapia di gruppo volta a scandagliare l’animo umano. C’è poco orrore? Non fa niente, non ho mai pensato che il fine ultimo del genere fosse la paura, ma la riflessione intorno alla paura. Se poi avete visto Hill House, saprete che ci saranno tante lacrime.

Verdetto

Midnight Mass è una serie che si prende il suo tempo, brucia con lentezza per svelare le sue carte poco prima della metà della stagione. Ma la verità è che il twist che ho così tenuto nascosto in queste tante, troppe, battute, è solo l’elemento che mette in moto una toccante e personale - per Mike Flanagan e per noi che guardiamo - disamina dell’essere umano e della necessità di credere in qualcosa, qualunque cosa, che possa esorcizzare la paura più sacra e antica, che chiamiamo morte, ma forse sarebbe meglio non esistenza. È un argomento importante, troppo per una serie che si propone di intrattenere innanzitutto, ma Flanagan ci mette cervello e cuore e confeziona - sì, mi piace usare termini che rimandano all'artigianalità del genere - una miniserie raffinatissima ma allo stesso tempo popolare, che può arrivare a chiunque e tende a semplificare concetti complessi. Per raggiungere questo obiettivo si concentra sulla scrittura e sulla struttura, facendosi ispirare dal maestro di sempre Stephen King, dall’esperienza del folk horror e dalla tradizione letteraria horror classica. Il risultato è un racconto corale in cui è facile immedesimarsi, che forse non approfondisce proprio allo stesso modo tutti i personaggi e, qualche volta, ha cali di ritmo e qualche ingenuità, ma presenta picchi elevatissimi di intensità. Per tutte queste ragioni, credo che Midnight Mass sia la l’opera migliore scritta e diretta da Flanagan finora. Sicuramente la più personale e toccante.

In questo articolo

Midnight Mass - La recensione

8.5
Buono
Flanagan ci mette cervello e cuore e confeziona un racconto corale toccante e raffinato, ma allo stesso tempo popolare.
Midnight Mass
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