Il talento di Mr. Damon nel rendersi invisibile - la Repubblica

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Il talento di Mr. Damon nel rendersi invisibile

Foto Chris Anderson/Magnum/Contrasto
Foto Chris Anderson/Magnum/Contrasto 
Matt Damon: sembra di conoscerlo da sempre. La sua presenza è rassicurante e apprezzata, anche nei ruoli più discutibili e violenti. Ma c’è qualcosa di insondabile e ben nascosto nel protagonista di una carriera ormai lunga e vincente. Che sia questo il vero motivo del suo successo?

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«Ci può essere un grande insegnamento in una minuscola scena, per un attore», dice Matt Damon, una spruzzata di grigio sui capelli corti, un pizzetto sottilissimo, qualche gradevole segno dell’età intorno agli occhi. Mi sta raccontando un aneddoto su Jack Nicholson, con cui ha lavorato in The Departed - Il bene e il male, l’epopea di Martin Scorsese del 2006 su poliziotti corrotti e criminali. «Si trattava di un ottavo di pagina», prosegue Damon, inarcando le sopracciglia con aria demoniaca, “alla Nicholson”. «Jack, nei panni del gangster bostoniano Frank Costello, trasformò l’uomo che doveva giustiziare in una donna, commentando: “Questo sì che è macabro. Costello che fa fuori un uomo in una palude? L’abbiamo già visto al cinema. Non è quello che ho fatto io”». Damon sorride, mostrando i denti perfetti (indiscutibilmente da star), mentre descrive l’intreccio sempre più orripilante di Nicholson, accompagnato a ogni aggiunta da un «Ecco, questo è davvero macabro». Scorsese alla fine tagliò quasi tutte le battute improvvisate. Ma questo nulla toglie alla lezione di Nicholson: «Jack partiva da una scena vista centinaia di volte e faceva di tutto per renderla più bella e interessante che poteva».

Matt Damon ha recepito a fondo il messaggio, anche se lo esprime in modo molto diverso dal suo “maestro” che, in qualunque ruolo, mette sempre una gran parte della sua personalità. L’uomo Damon, invece, riesce quasi a scomparire. Sia come attore, sia come personaggio pubblico, è uno come tutti, l’americano medio, il bravo vicino di casa. Ma c’è anche un côté nicholsoniano sottotraccia, una cupezza che affiora in molti suoi ruoli. Tutto questo per dire che Damon, in modi più o meno sottili e intenzionali, ha reso più complesso il suo rapporto con il pubblico.

Nel corso della sua pluridecennale carriera, ha spesso incarnato il modello idealizzato dell’uomo della strada, quel personaggio solido, combattivo, alla mano e di buon cuore, che ha interpretato con apparente semplicità ed economia di emozioni in una lunga successione di film di successo. C’è l’imperturbabile capitano della nazionale di rugby sudafricana François Pienaar in Invictus (2009); c’è il papà che si barcamena per tenere tutto insieme in Contagion, poliziesco a tema pandemico del 2011; c’è Carroll Shelby, capo scuderia della Ford impegnato in una sfida automobilistica con le Ferrari in Le Mans ’66 - La grande sfida (2019). Per non parlare di Mark Watney, l’astronauta spiaggiato su Marte in Sopravvissuto - The Martian (2015). Perfino nel contesto glamour di Ocean’s Eleven e dei sequel, Ocean’s Twelve e Ocean’s Thirteen, il suo borseggiatore, Linus Caldwell, smania per ottenere l’approvazione dei due raffinati superladri interpretati da George Clooney e Brad Pitt: il che significa che assomiglia più a noi che a loro.

IL LATO BUONO. Eppure, nonostante sia una celebrità e una garanzia al botteghino, Damon dà sempre l’impressione di essere una persona distante. Ed è strano perché non è mai diventato una star inaccessibile, come DiCaprio, o gli amici Pitt e Clooney: Matt è troppo saldamente materico per una cosa del genere. E non è nemmeno uno che insiste sui misteri del suo essere, come Tom Cruise. Però c’è un’impenetrabilità talmente profonda e radicata in lui da essere ormai considerata scontata. «Quindici anni fa, durante la campagna promozionale di The Good Shepherd - L’ombra del potere (in cui interpretava uno spregiudicato agente della Cia negli anni ’50, ndr), ho partecipato al programma di Larry King con Robert De Niro e Angelina Jolie», racconta. «Larry cercò i nostri nomi su internet e lesse le parole che la gente associava a noi: Bob era “intenso”, Angie“sexy”, io un “bravo ragazzo”. Mi sentii vagamente offeso».

Quando lo intervisto, Matt - con la moglie Luciana Barroso e tre delle quattro figlie - si trova a Sydney, in Australia, dove si è trasferito per partecipare a Thor di Taika Waititi, terminate le riprese di The Last Duel di Ridley Scott, ora in sala, in cui interpreta un vendicativo cavaliere francese del Trecento, Jean de Carrouges, che accusa uno scudiero di aver stuprato sua moglie. Come sempre è disponibile (ma guardingo), parlare con lui è come fare una chiacchierata con un ex compagno di classe o un vecchio collega.

Ma basta studiare un po’ più da vicino la sua carriera per capire che quel bravo ragazzo potrebbe essere una sorta di illusione. Perché il lato oscuro esiste. Matt non interpreta solo persone perbene. Al contrario. C’è Jason Bourne, al centro di quattro film, che è una macchina per uccidere; c’è l’arrampicatore sociale sociopatico del Talento di Mr. Ripley; c’è il corrotto Colin Sullivan di The Departed; c’è lo studente antisemita di Scuola d’onore. Invece, fra i “cretini” ai quali ha prestato il volto, quello più abilmente tratteggiato è Mark Whitacre, l’impiegato intrallazzone che porta alla luce le condotte illecite della sua azienda in The Informant!. Mentre ha cambiato repentinamente immagine nel cameo dell’astronauta codardo di Interstellar. «È sempre pronto a liberarsi del suo involucro fanciullesco, da americano medio», conferma Steven Soderbergh, che l’ha diretto in nove film. Oggi, un attore difficilmente avrebbe la stessa possibilità. Nel corso degli anni, Damon ha visto le pellicole drammatiche con budget fra 20 e 70 milioni di dollari, su cui ha fondato la sua carriera, scomparire dalla scena o quasi. «I thriller giudiziari non si fanno più», commenta. Sono stati rimpiazzati da altre pellicole più esportabili, a più alto budget, ma meno rischiose. «Si cerca la storia che funziona ovunque e per tutti. Quale? Quella da supereroi».

Ugualmente le scelte di Matt continuano a evidenziare un desiderio di impegno. Un esempio è il nuovo thriller La ragazza di Stillwater, di Tom McCarthy, in cui è Bill Baker, operaio di un giacimento petrolifero dell’Oklahoma che ha il cuore nel posto giusto, ma per tutto il resto imbocca strade sbagliate. La figlia di Baker (Abigail Breslin, ndr), è in una prigione di Marsiglia per l’omicidio della fidanzata franco-araba, di cui si dichiara innocente. Baker va a farle visita e lei gli passa una soffiata su un presunto autore del crimine. Ispirato lontanamente alla vicenda di Amanda Knox, il film segue Baker mentre prova, con nobili intenzioni ma modi grossolani, a districarsi nel sistema legale e sociale francese. È un classico alla “Damon”: Baker è uno per cui viene spontaneo provare simpatia e, anche se poi rovina tutto, non si riesce a fargliene davvero una colpa.

IL LATO OSCURO. Matt Damon ha beneficiato per lungo tempo di una certa invisibilità nella vita pubblica. Un’abilità che risale a Will Hunting - Genio ribelle, quando con Ben Affleck, ambedue usciti più o meno dal nulla, scrisse il film che lo consacrò come uno per cui viene spontaneo fare il tifo. Matt e Ben salirono sul palco per ricevere l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale sprigionando un entusiasmo puro, senza nessuna affettazione. Erano il simbolo del bravo ragazzo, e a uno dei due quell’immagine è rimasta appiccicata. Matt è riuscito a congelare il suo personaggio pubblico in quell’attimo. Ha avuto un paio di relazioni sentimentali di alto profilo (Minnie Driver, Winona Ryder) e poi è sparito dai tabloid, per preservare la sua carriera: «Se la gente vede 16 foto di te che bevi un caffè o porti a spasso il cane, avrà meno desiderio di guardarti in un film». Forse è arrivato a questa conclusione anche per la vicinanza con Ben Affleck - anche lui recita in The Last Duel e lo ha pure scritto, con Damon e a Nicole Holofcener - che non è riuscito a tenersi alla larga dalla stampa scandalistica con altrettanta efficacia e che è arrivato a confidargli in passato: «Il mio nome fa vendere le riviste, ma non i biglietti del cinema».

Cosa si sa, allora, di Matt Damon? Lui e il fratello più grande, Kyle, sono stati cresciuti a Cambridge, nel Massachusetts, dal padre Kent, un agente di borsa, e dalla madre Nancy Carlsson-Paige, docente di educazione infantile. La coppia divorziò presto, ma conservò buoni rapporti. «In pratica ci crebbero insieme», afferma Damon. Una leggenda di famiglia vuole che, quando la madre scatenò accidentalmente un piccolo incendio nel loro appartamento perché aveva dimenticato di aprire la condotta della canna fumaria del camino, Matt, che aveva sei anni, indossò un costume da pompiere improvvisato e fece finta di spegnerlo: insomma, la recitazione era nel suo Dna. Infatti, abbandonò Harvard nel ’93, dopo aver ottenuto una parte nel western Geronimo. «Mi sentivo in colpa quando sentivo gli amici dire che non sapevano cosa avrebbero fatto nella vita», racconta. «Io ho sempre saputo che avrei fatto l’attore». Matt e la moglie si sono conosciuti a Miami, dove lei lavorava come barista e lui stava girando Fratelli per la pelle: ormai sono sposati da 16 anni. Le loro quattro figlie hanno fra 10 e 23 anni. La casa di famiglia a Brooklyn Heights, secondo il New York Post, era la residenza privata più costosa di Brooklyn quando è stata acquistata, nel 2018. L’ultimo romanzo che ha letto è Sentieri selvaggi, di Alan Le May: sta valutando l’idea di un remake del famoso western che ne è stato tratto nel 1956. «Che altro faccio? Non saprei, mi sa che sono un tipo abbastanza noioso», conclude.

Noioso o scaltro che sia, Matt si considera «l’ultimo di quella genia di individui che ambisce alla riservatezza. Ora c’è tutta questa gente che invita l’universo nella sua vita quotidiana», prosegue. «“Guardate, sono in palestra! Questo sono io mentre mi alleno!”. In un certo senso è una cosa intelligente, perché sei tu a controllare la narrazione, ma è l’esatto contrario di come l’ho sempre vista io, cioè tenere alla larga i curiosi e fare semplicemente il proprio lavoro». Anche prima di diventare famoso, come attore Damon è sempre stato orientato verso una certa introspezione. Ricorda una discussione con Ben Affleck quando studiavano alla Rindge and Latin School di Cambridge. Cinefili appassionati, avevano visto da poco la versione cinematografica di Morte di un commesso viaggiatore (1985). Nei panni del protagonista, Willy Loman, 63 anni, incarnazione di chi lotta per una vita intera spinto dall’illusione, c’era Dustin Hoffman, 48 anni: per Affleck gli sforzi di Hoffman per esprimere apertamente quel divario anagrafico erano ben visibili nella sua interpretazione. Matt e Ben si chiedevano: è buona una recitazione che annuncia se stessa? È questo che volevano essere come attori, dei tecnici autoreferenziali? O era preferibile essere dei camaleonti? Damon conosceva già la risposta: voleva essere come Gene Hackman. Che, allora 57enne, aveva recitato da protagonista in classici come Il braccio violento della legge o Colpo vincente ed era il tipo di attore che si scioglie nel personaggio senza ostentarlo tanto, un antimago che dissimula la sua trasformazione. «Hackman era capace di calarsi così profondamente in un ruolo e di commuovere anche quando non faceva quasi nulla», dice Matt.

La vecchia massima di William Goldman sul fatto che a Hollywood nessuno sa nulla oggi probabilmente potrebbe essere emendata così: tutti sanno solo che i film di supereroi vendono. Il che implica che il potere degli attori, perfino nel caso di star conclamate, si è ridotto. Un attore che è sempre rimasto sulla cresta dell’onda, come Matt Damon, è bravo a capire se un film funzionerà e se lui funzionerà in quel film. «A volte, la scelta giusta non è il film più importante, ma quello adatto per quel momento della carriera», dice George Clooney, che ha diretto Matt Damon in Monuments Men e Suburbicon. «Matt rimbalza fra film dei grandi studios e indipendenti. La gente non si stufa di lui perché non fa sempre le stesse cose».

Oggi, scegliere il film giusto per Damon significa scegliere registi forti. Anche all’inizio Matt aveva del resto le idee chiare. Il suo agente, Patrick Whitesell, racconta che Damon sbaragliò nel ’95 la concorrenza per Pronti a morire, entusiasmando con la sua audizione, ma alla fine rinunciò lasciando la parte a DiCaprio. Il suo istinto si rivelò azzeccato, il film fu un flop: «Probabilmente sono stato solo presuntuoso», minimizza Matt. Poco tempo dopo, Will Hunting - Genio ribelle ricompensò la sua spavalderia. Ma, per Whitesell, la svolta vera, fu  L’uomo della pioggia - The Rainmaker, di Francis Ford Coppola. Durante il suo apprendistato, Damon non si limitò ad andare a caccia dell’ingaggio più alto. «In Salvate il soldato Ryan, dovevo solo prendere un proiettile, sbatterlo contro un portamunizioni, gettarlo via, gridando “Attenti al Panzerschreck”». Così fece, solo per vedere il protagonista del film, Tom Hanks, «che rideva fino alle lacrime. Gli chiesi perché e lui: “A volte questa battuta del Panzerschreck bisogna riuscire a dirla bene. E tu l’hai fatto”». Damon è stato testimone diretto anche di altri problemi legati al successo. Prima di Will Hunting, lui e Ben Affleck incontrarono Hugh Grant, all’epoca all’apice come protagonista di commedie romantiche, per vedere di tirare fuori un progetto a tre. «Lui aveva delle idee» dice Damon parlando di Grant, «e le spiegava così: “Poi arriva Hugh il Leccatino e risolve la situazione”. Si definiva sempre Hugh il Leccatino, il sistema lo costringeva a interpretare quel ruolo, e lui era bravissimo a farlo». Matt venne via da quell’incontro pensando che non avrebbe mai voluto ritrovarsi  imprigionato dentro un solo ruolo.

Nel 2009 Damon trovò Jason Bourne: un investimento sicuro. «Sapevo che con Bourne avrei avuto un film che, fatto nel modo giusto, avrebbe funzionato quasi sicuramente. È una cosa che ti lascia libero di seguire altri progetti di ogni tipo. Prendevo un ruolo di contorno in questo film e un altro in quell’altro film». Ma anche ai livelli di Damon la carriera di una star hollywoodiana è sempre appesa a un filo. Appena pochi anni fa, Suburbicon e Downsizing fecero cilecca in rapida successione, e il fantasy storico The Great Wall incassò, ma era una ciofeca. Matt temeva di essere in serio pericolo. Si interrogava sul suo posto nella “Lista”, la classifica intangibile e instabile cui sono affidate le sorti di un film. «Nessuno sa dire esattamente chi comprenda, nessuno l’ha mai vista, cambia di mese in mese». Si è sentito più sicuro quando Le Mans ’66 ha fatto centro. Mi racconta che perfino nei film che sceglie di solito non è il primo nome per i produttori. «Brad ha perso il conto dei miei film che erano stati offerti prima a lui; un esempio è The Departed».

IL LATO DEBOLE. Le fasi più difficili nella carriera di Damon sono da ricondursi a passi falsi commessi fuori dal grande schermo. Ci sono stati episodi in cui è sembrato poco consapevole dei progressi culturali più generali. Il primo episodio è avvenuto durante la stagione 2015 di Project Greenlight, reality della Hbo sui cineasti esordienti. In un episodio, una produttrice nera, Effie Brown, aveva posto una domanda sulla carenza di diversità nello show. Matt le aveva risposto, mostrando una scarsa considerazione del problema. Il commento ha provocato una levata di scudi online, con l’hashtag #damonsplaining, una variante del whitesplaining, che secondo l’Urban Dictionary è «la lezioncina paternalistica di un bianco a una persona di colore per definire che cosa è razzista e che cosa no, esibendo senza volerlo il proprio razzismo».

Poi, nel 2017, nel momento top del movimento #MeToo, Damon, in un’intervista, disse che le accuse di comportamenti sessuali inappropriati dovevano essere considerate nell’ambito di uno «spettro». In questi due episodi, per cui l’attore ha chiesto scusa, Damon è apparso emotivamente ignorante, un uomo bianco ricco e inconsapevole dei paraocchi che limitano la sua visuale. «Sono cose di cui non riuscivo e a rendermi conto», dice con aria contrita. Come tanti a Hollywood, ha avuto anche motivo di riconsiderare i suoi rapporti i con il produttore Scott Rudin,  con cui ha lavorato per Il Grinta e Margaret, di recente messo sotto accusa per i suoi comportamenti intimidatori, e anche con Harvey Weinstein, artefice del suo lancio. «La negatività dei loro comportamenti è sconvolgente, e io non ne ho mai avuto una reale percezione», dice. «Le mie esperienze di lavoro con loro sono state positive, ma è triste vedere persone che abusano del loro potere solo perché di successo». Per effetto dei passi falsi e della severa reazione del pubblico, Matt dice che la prospettiva di parlare della sua vita o del suo lavoro al di fuori di quello che vediamo sullo schermo gli provoca «un certo terrore». Il problema, però, è che lui è il simbolo perfetto dell’attore famoso maschio, bianco e americano in un momento in cui la fiducia in ciò che quella figura rappresenta è vista con sospetto. C’è un motivo se non c’è nessun erede di Damon: tipi come lui non hanno più il vantaggio automatico di giocare in casa nel cuore di tante persone. «È logico che quando la cultura cambia, cambino anche gli uomini di successo», commenta. «Sarà il pubblico a decidere chi vuole vedere».

Scopro che Tom McCarthy,  che ha diretto La ragazza di Stillwater, è un altro regista che vede in Damon un’immagine bell’e pronta per essere distorta. «Era importante avere un attore che incarnasse un ideale americano», spiega. Poter partire da questo ha consentit di «invertire la storia dell’eroeo». Bill Baker è disposto a tutto per la sua famiglia, anche quando cessa di essere legale e giusto. Il fatto che il pubblico tenda a fidarsi dei personaggi di Matt, anche quando sa che sbagliano, «è interessante da osservare», dice McCarthy.

Ben Affleck è dell’idea che il suo amico sia troppo umile per ammettere che «non è mai stato così fiero di un’interpretazione come stavolta». C’è quella pronuncia strascicata dell’Oklahoma, quella fisicità massiccia e sgraziata da operaio di mezz’età, la camicia da lavoro di flanella rimboccata dentro i pantaloni, ci sono i jeans ignifughi, tutti rigidi. Soprattutto, c’è la sensazione concreta che Matt Damon, un uomo benestante del New England, con studi a Harvard, che ha raccolto fondi per Elizabeth Warren, sia riuscito a calarsi profondamente nei panni del personaggio. «Le scelte di vita di Bill Baker non sono le mie», dice, «ma il mio lavoro era sforzarmi di capirle». La ragazza di Stillwater è pieno di scene recitate meravigliosamente, una è  quella che cattura l’abilità con cui Matt riesce a usare la nostra buona predisposizione nei suoi confronti come un cavallo di Troia emozionale ed è quando Bill Baker entra nella camera di chi ha imparato ad amare per dirle addio per sempre: il fatto che il dolore che sta provando sia colpa della sconsideratezza delle sue azioni non ha importanza.

A 51 anni, Matt Damon è diventato fino in fondo l’attore che sperava di essere quando andava alla Rindge and Latin, un attore che Gene Hackman avrebbe ammirato, e che in effetti ammira: gli inviò una lettera di congratulazioni dopo averlo visto in The Informant! Nel 1993, Damon si ritrovò a recitare con il grande attore in Geronimo, anche se dire che hanno recitato “insieme” è un po’ eccessivo. «C’è un’unica inquadratura che ci riunisce», racconta Matt. «Hackman interpreta il generale Crook, Jason Patric è il tenente colonnello e io il sottotenente Britton Davis. Sono otto cavalli indietro». Guardando la scena, si vede Matt, vestito da soldato della cavalleria, condurre il suo destriero dopo un guerriero apache. «Stavo cercando di entrare nell’inquadratura per essere nella stessa scena con Hackman», spiega. In quel giorno polveroso, Damon riuscì ad avvicinare il suo idolo. Scambiarono qualche parola e poi Hackman lo salutò: «Bene, Mark, sono felice di averti conosciuto». Rievocando quel momento ora, Matt commenta. «Non era importante che avesse sbagliato il nome. Ero solo felice di essere lì». n

Traduzione di Fabio Galimberti/copyright @ New York Times