Gli spiriti dell'isola: la recensione del film

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Gli spiriti dell'isola di Martin McDonagh

© MYmovies.it

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Arriverà con un gran fracasso fino alla vostra porta e se aprite […] vi sarà gettato in faccia un bacile di sangue

W. B. YEATS, La Banshee (da Fiabe irlandesi)

Una volta mio padre, raro devoto della prosa di Thomas Hardy, mi ha suggerito la lettura di un racconto intitolato, in italiano, Il suonatore di danze scozzesi (oppure, alternativamente: Il violinista di danze scozzesi). Il doppio tecnicismo contenuto nell’originale The Fiddler of the Reels, in effetti, imbarazzerebbe qualunque traduttore in erba, in quanto: 1) il fiddler non è un semplice ‘suonatore’ o un ‘violinista’, trattandosi di un iponimo che, quando rapportato al contesto della musica folk cosiddetta “celtica”, si staglia con propria, ineludibile specificità tautologica di ‘suonatore di fiddle’, specie di violino da maneggiare con tecniche sui generis; 2) il reel non è una semplice ‘danza scozzese’, bensì un peculiare tipo di danza, allo stesso modo della pizzica salentina o del saltarello centroitaliano – un’ipotetica versione delle quali in “Italian dances” pochi sarebbero propensi ad avallare.

Gli spiriti dell’isola (orig. The Banshees of Inisherin, 2022), l’ultimo film scritto, diretto e co-prodotto da Martin McDonagh – due volte Golden Globe alla Miglior sceneggiatura, prima con Tre manifesti a Ebbing, Missouri (orig. Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017) e poi con questo –, sollecita meditazioni onomastiche analoghe. Infatti: 1) la banshee irlandese è sì uno ‘spirito’ (o forse più una ‘fata’?), ma di tipo particolare, ominosa “voceratrice” di morti imminenti; 2) Inisherin, quantunque si tratti di un’isola fittizia, è stata pensata dal regista a paradigma di un intero territorio (letteralmente, questo toponimo, coerentemente con formati attuali come Inishmor o Inishbofin e risultando composto dei due termini inis, ‘isola’, ed Erin, ‘Irlanda’, si tradurrebbe ‘Isola d’Irlanda’).

Ebbene: su quest’isola, a debita distanza da un mondo dilaniato da guerre fratricide che non possono non risuonarci oggi tristemente familiari, nel 1923, vive Pádraic (Colin Farrell), un allevatore abitudinario e un po’ sempliciotto il quale, senza preavviso, si ritrova un bel giorno defraudato di un’annosa amicizia con il fiddler, Colm (Brendan Gleeson), cui “non va più a genio” l’onnipresenza di Pádraic nella sua vita.

Di qui una climax narrativa che traghetta lo spettatore dalla dark comedy più esilarante a un maelstrom di tragedie irreversibili. Mentre infatti, al di là del mare, confuse fazioni persistono a cannoneggiarsi a oltranza, anche a Inisherin incominciano a sgretolarsi legami amicali e parentali dati per inossidabili – due esempi su tutti: quando l’unico poliziotto della comunità viene sorpreso ad abusare del proprio potere e, parallelamente, anche del figlio un po’ “tocco” (Barry Keoghan); ancora, quando la sorella di Pádraic, Siobháin (Kerry Condon) si strugge al dilemma se abbandonare il fratello per sempre o restare a sprecare la propria vita al suo fianco –, per arrivare infine a dita mozzate, incendi dolosi e a morti misteriose preconizzate dal lamento tetro di una vera e propria banshee nerovestita (Sheila Flitton).

Gli spiriti dell’isola è un capolavoro di scrittura impossibile, che riesce a ibridare l’oscurità atmosferica di Il campo (orig. The Field, 1990) di Jim Sheridan, l’angosciosa aspettativa in peggio di Il vento che accarezza l’erba (orig. The Wind That Shakes the Barley, 2006) di Ken Loach con la fresca, leggera schiettezza dei dialoghi del miglior Roddy Doyle (cfr., ad esempio, La Trilogia di Barrytown o Due pinte di birra). Per apprezzare al meglio questi ultimi, ovviamente, consiglio una visione in bovaro-irlandese sottotitolato: irresistibile.

Fatta piazza pulita di ogni eventuale residuato "eroistico" marchiato Hollywood, quel che resta del giorno in McDonagh è solamente la miopia, la meschinità di tutti noi esseri umani, che amiamo e odiamo interessatamente il nostro prossimo e per clausole.

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