Marianne: il monologo sfibrante di Isabelle Huppert

No, questo infinito monologo di Marianne non è l’Addio al linguaggio di Godard (esperimento fallito, caro Rozek)

Cos’è la narrativa? Cos’è il cinema? Cos’è il tempo? Non è il regista e sceneggiatore esordiente francese a poter rispondere, col suo film in anteprima al Torino Film Festival 2023 con protagonista Isabelle Huppert

Finita l’anteprima di Marianne alla 41esima edizione del Torino Film Festival, un signore si alza e con estrema sincerità ammette: “Negli anni settanta lo avrei apprezzato un film così, oggi però…”. Il signore, che a colpo d’occhio negli anni settanta sarà stato un giovane rivoluzionario sulla scia dei Cahiers du Cinéma, sapeva perfettamente cosa intendeva, e lo ha fatto capire altrettanto bene a chi aveva intorno – principalmente al suo amico seduto vicino, in verità all’intera sala.

L’esperimento di Michael Rozek, alla sua opera prima che non fa certo sperare ce ne siano altre simili in futuro, è una masturbazione recitativa e cinematografica da cui non escono bene né il regista e sceneggiatore né la sua attrice-diva, Isabelle Huppert.

Seduta per un’ora e mezza con un copione in mano davanti a una telecamera semi-mobile, l’attrice francese, che per l’occasione assume il nome di Marianne Lewandoski, sbrodola addosso a se stessa e agli spettatori un monologo infinito, per nulla ragionato, che vola sui massimi sistemi e non tocca con mano nessuna delle questioni che, teoricamente (ed è con la teoria che ammazza il film), vorrebbe trattare.

C’è la riflessione spasmodica e continua su cos’è l’arte, cos’è il cinema, cos’è la narrativa, cos’è l’immedesimazione. Cos’è il calarsi in un mondo finto, finzionale, funzionale ai racconti e alla fantasia, al cucire i personaggi direttamente sul corpo dei loro interpreti. E mentre ossessivamente Marianne continua a domandarlo – e a domandarselo -, dimostra di non essere niente, neanche per sbaglio, di ciò che sta teorizzando (e qui di nuovo la teoria che ammazza anche la voglia degli spettatori di stare seduti a guardare il film).

Marianne distrugge lo spettatore, non il tempo

Marianne è l’Addio al linguaggio di Jean-Luc Godard, ma Michael Rozek non è Jean-Luc Godard. E non lo è soltanto perché, come ci ricorda con saggezza il signore alla première di Torino, non siamo negli anni settanta. Marienne sono i rovelli di una protagonista che si fa megafono delle idee del suo autore.

Analisi effimere, intangibili, anche tautologiche da molti punti di vista. Che ripetono se stesse in maniera continua e che si ha l’impressione, devastante, che possano prolungarsi all’infinito.

Cos’è la narrativa? Cos’è il cinema? Cos’è il tempo? Con Marianne la narrativa è una barzelletta, non perché ne dà prova, né fa ridere in modo sornione, ma perché per saperla distruggere bisognerebbe averne prima consapevolezza. Il cinema è un banco di gioco a cui però, nessuno vuole partecipare. Il tempo sono le manette che tengono in ostaggio il pubblico, esausto dall’ennesimo autore che vuole insegnargli come rivoluzionare l’arte senza sapere come.

“Questo non è un sogno”, scrive il film a caratteri cubitali sul finale. Nessuno ne aveva dubbio. È evidente che il regista stesso avesse paura che lo spettatore, preso dai fumi del sonno durante la visione, rischiasse di rimanere ancorato a una dimensione onirica in cui spesso il cinema opera. Ma non è questo il caso. Non lo è affatto.