La zona di disinteresse. Per cosa Salvini ha barattato il Nord - HuffPost Italia

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La zona di disinteresse. Per cosa Salvini ha barattato il Nord

“La Lega è nata come sindacato del Nord, Salvini sbaglia. Bisogna rimettere le cose a posto”. Umberto Bossi, a giudizio di molti, non è tipo da serbare rancore. Chi però è andato a fargli visita a Gemonio ha trovato l’anziano fondatore della Lega convinto che il tempo di Matteo Salvini sia agli sgoccioli. La pensa così anche Roberto Castelli, ex ministro ed esponente storico del Carroccio, che all’Huffpost rivela: “La Lega è stata trasformata in un partito di ultra destra, con il Ponte di Messina come bandiera. Invece nei territori c’è grande richiesta di Nord. Se alle elezioni europee Salvini va sotto l’8% esplode la rivolta. Lo cacciano”.

Non sono malignità di un fuoriuscito. La metamorfosi imposta alla Lega dal segretario e vicepremier, a giudizio di numerosi azionisti del Carroccio, è tossica. Non piace ai governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, al ministro Giancarlo Giorgetti e ora perfino ai capigruppo Max Romeo e Riccardo Molinari. Praticamente l’intero stato maggiore leghista. Non va giù, dettaglio non da poco, neppure ai ceti produttivi del Nord-Ovest e Nord-Est, locomotiva economica del Paese. E non affascina gli elettori del Centro e del Sud. Il rosario di sconfitte elettorali sono lì a dimostrarlo.

In 5 anni Salvini ha barattato il federalismo con il nazionalismo, l’antifascismo con il criptofascismo di Roberto Vannacci, il nordismo con il patto contro natura con il ras campano delle preferenze Aldo Patriciello, la secessione della Padania con il Ponte sullo Stretto. E, ciliegina sulla torta, ha abbracciato la Russia di Vladimir Putin assieme ai movimenti filo-nazisti che montano in Europa.

In questa opera di rimozione del Nord, di quella che i lùmbard chiamavano Padania, il vicepremier ha finito per accanirsi contro Bossi, simbolo vivente della Lega che fu. Un anno fa, proprio a Pasqua, l’ufficio nel gruppo leghista della Camera è stato cancellato a sua insaputa. In più, Salvini è riuscito a trovare il modo per tenere il Senatùr lontano da Roma e dal Parlamento. Come? Evitando accuratamente di integrare la squadra di quattro assistenti che la Lega, dopo il terribile ictus, aveva sempre garantito a Bossi: quando uno è andato in pensione, due si sono ammalati gravemente e l’ultimo si è arreso (“da solo non ce la faccio”), il segretario leghista ha pensato bene di confinare il fondatore della Lega nella villetta di Gemonio. Silenziato. Distante da tutto e da tutti sulla sua sedia a rotelle. “Una sorta di arresti domiciliari”, sibila un leghista della prima ora.

Adesso che la Lega fibrilla, ora che è esplosa la tempesta, davanti alla villetta di Gemonio però c’è la fila. Il citofono suona spesso. E Bossi, 82 anni, apre, ascolta. Parla poco. Dicono: “Non è arrabbiato con Salvini, come non era arrabbiato neppure con Maroni…”. È “molto amareggiato” però: “Soffro a vedere la Lega diventata di estrema destra, bisogna rimettere le cose a posto. Non dimentico mai che mia nonna Celesta fu torturata dai fascisti”. Era socialista, fu costretta dalle camice nere a pedalare su una bici elettrica finché non le saltarono le rotule.

Salvini se ne infischia, sembra non comprendere che la vera minaccia per la sua leadership arriva proprio dal Nord. Autonomia differenziata a parte, nell’opera di rimozione delle radici leghiste, il segretario e vicepremier ha deciso di non festeggiare il 12 aprile i 40 anni dalla fondazione della Lega. Quel giorno Salvini non parteciperà a un evento organizzato a Busto Arsizio da Francesco Speroni. Una sorta di abiura della storia lumbard. E pensare che Antonio Tajani, in queste ore, celebra con massima enfasi a Napoli i “trent’anni di successi” di Forza Italia e del suo fondatore Silvio Berlusconi.

Nascondere il leghismo e il nordismo però non paga. Nel 2019 Salvini era il padrone d’Italia. Governava con Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, decideva la vita e la morte (letteralmente) dei migranti. E alle elezioni europee di cinque anni fa prese il 34,3% dei voti. Poi però vennero i mojito, il Papeete, il confino del governo giallo-rosso, il rospo Mario Draghi da ingoiare. Un declino fragoroso e rapido che Salvini ha provato ad arrestare cavalcando slogan e battaglie dell’ultra destra, tifando per Putin e scegliendo come compagni di strada Marine Le Pen e i filonazisti di Alternative fur Deutschland. Insomma, il vicepremier ha letteralmente ribaltato la natura alla Lega, trasformandola da partito territoriale a partito nazionale di estrema destra, più a destra di Giorgia Meloni. Altro grave errore: gli elettori gli hanno preferito l’originale. E ora il Carroccio viaggia attorno all’8%, sorpassato (quasi doppiato) da Forza Italia alle regionali sarde e abruzzesi.

Il quadro per Salvini si fa così di giorno in giorno più fosco. All’ultimo federale, nello scorso week-end, ha dovuto concedere il congresso in autunno. Ed è finito commissariato. Affiancato (formalmente per la scrittura del programma) da un quadrumvirato composto da Giorgetti, Fedriga, Romeo, Molinari. E attenzione: è difficile trovare tra i quattro uno davvero in linea con il segretario. “Bisogna recuperare l’identità che abbiamo perso. Vannacci non piace alla base…”, ha attaccato qualche ora fa Romeo, di solito allineatissimo con Salvini. In più, cosa non da poco, aumenta la distanza tra il segretario e Zaia: “La Lega Nord mi piaceva di più”, ha scolpito nella pietra il potente governatore veneto qualche settimana fa a Treviso. Applausi scroscianti.

Da quel momento, complice la batosta in Sardegna (dal 27% al 3% in 5 anni) e il fatto che Salvini non riuscirà mai a riportare a Strasburgo i 29 parlamentari uscenti (se andrà di lusso ne incasserà 8-9) è stato un crescendo. L’eurodeputato Giannantonio Da Re gli ha dato del “cretino”. Spiegazione: “C’è grande rabbia per Vannacci, Cesa, Patriciello. Salvini ha usurpato il partito, ma dopo la batosta delle europee noi della Lega Nord ci faremo trovare pronti…”. Conclusione: Da Re è stato cacciato dopo 42 anni di militanza.

La repressione però non basta, monta la rivolta nei territori. Riprendono voce i dissidenti bossiani come Paolo Grimoldi, fondatore della corrente Comitato Nord, che ha chiesto di togliere “il nome Salvini dal simbolo” per “evitare la debacle alle elezioni”, invocando un “passo di lato” del capo. Soprattutto, Grimoldi, ha dato voce alla protesta contro Vannacci e il Ponte sullo Stretto: “Cagate pazzesche”.

Molti leghisti della prima ora preferiscono andarsene. Tant’è, che il siculo Cateno De Luca, quello di “Sud chiama Nord”, si è inventato una lista per le europee. Nome: “Fronte della libertà”. E ha imbarcato l’ex ministro Castelli, i quattro consiglieri regionali di Rassemblement Valdotain, la consigliera comunale di Monza Desiree Merlini,  il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi che era responsabile Protezione civile del Carroccio.  In più, il “Fronte della libertà” ha stretto un accordo con due fuoriusciti di un certo peso sul territorio: Vito Comencini (fondatore di “Popolo Veneto”) e Roberto Bernardelli (capo del movimento “Grande Nord”). Osservazione di De Luca: “Non sono io a smantellare la Lega, sono i leghisti che stanno scappando. Vengono a cercarci…”.

Il copione è già scritto: se Salvini il 9 giugno andrà sotto l’8% o non farà il “risultato a due cifre” promesso sabato scorso, perderà posto e corona. Il successore ha già un nome: Fedriga, il governatore friulano considerato amico di Giorgia Meloni, che una settimana fa ha confidato alla premier: “La linea di Matteo non paga sui nostri territori”. E, c’è da giurarci, Meloni non è restata, né resterà inerte nelle trame per affossare il Capitano. O quello che fu.

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