Lorenzo Guerini: "Bisogna rafforzare la Nato e l'esercito" - HuffPost Italia

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Lorenzo Guerini: "Bisogna rafforzare la Nato e l'esercito"

Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa e presidente del Copasir. In un’intervista alla Stampa, il generale Philip Mark Breedlove, alto ufficiale dell’aeronautica militare degli Usa e già responsabile delle operazioni della Nato in Europa, dice che la Nato non sarebbe pronta in caso di attacco di Putin. Condivide l’allarme?

L’osservazione critica riguarda i tempi di reazione, più che gli strumenti di cui la Nato è in possesso: secondo Breedlove dovrebbero crescere in rapidità e reattività. L’alleanza Atlantica possedeva capacità militari significativamente superiori alla Russia già prima che questa invadesse inopinatamente l’Ucraina. Questa invasione ha ulteriormente ridotto la capacità di impiego russa in maniera molto sensibile. Quindi comprendo il richiamo agli alleati, ma credo anche che stiamo parlando di uno scenario altamente improbabile. E’ necessario comunque essere attrezzati per rendere più credibile la nostra deterrenza. Che serve a prevenire i conflitti, non ad alimentarli.

Non c’è un rischio reale di aggressione da parte di Putin ai paesi membri della Nato nell’Europa orientale?

Ascoltando la retorica putiniana, nulla si può escludere. Ma credo sia una retorica rivolta più al proprio interno da un lato e dall’altro tesa a fiaccare le opinioni pubbliche occidentali. Lo strumento militare russo, pur avendo riconvertito l’economia russa in economia di guerra, è stato fortemente colpito nella folle guerra mossa all’Ucraina. E in queste condizioni è impensabile per Putin un confronto con la Nato.

Si è indebolito anche se avanza sul terreno, capisco bene la sua analisi?

Ritengo di sì, nonostante la capacità di aumentare la produzione di munizionamento. Anche per questo i prossimi mesi in Ucraina saranno fondamentali per decidere l’andamento della guerra. Da parte nostra, come Occidente, più di molte parole è necessario incrementare i flussi di aiuti militari alle forze armate ucraine per difendere il loro paese e per costringere prima o poi Putin al negoziato. Con l’Ucraina in piedi. Più armi, dice.

Una necessità che si scontra con la war fatigue in Occidente.

Non abbiamo diritto di essere stanchi nel sostenere un popolo che si difende dalle bombe di una guerra imperialista. E abbiamo il dovere di fornire aiuti militari – munizioni e sistemi d’arma – di cui l’Ucraina ha bisogno. Nelle dimensioni e nei tempi necessari.

Anche gli ultimi interventi di Guido Crosetto e dell'ammiraglio Cavo Dragone rivelano una preoccupazione nella capacità di svolgere un'adeguata azione di deterrenza e, nel caso, di reagire ad eventuali azioni di intervento rapido. Quale è la situazione italiana?

E’ quella di uno strumento militare pensato negli ultimi trent’anni come uno strumento di proiezione e impegnato soprattutto nel contrasto al terrorismo internazionale jiadista. Gli ultimi due anni, dall’invasione russa alle azioni degli Houthi nel Mar Rosso, richiedono una rapida azione di adattamento e trasformazione con investimenti appropriati.

Quelli che ci sono non bastano?

In parte sono già garantiti dai fondi pluriennali decisi dai governi Conte 2, Draghi e Meloni. Stiamo parlando, nell’insieme, di un volume di 50 miliardi di euro con una proiezione temporale di 15 anni. In parte occorre una decisa attuazione degli strumenti normativi definiti negli ultimi anni e pensarne forse altri ancora. Già la legge 119 approvata all’unanimità alla fine della scorsa legislatura prevede alcuni interventi, ad esempio riportando a 160mila il numero complessivo dei militari italiani, rispetto ai 150 mila previsti dal governo Monti. Oppure far partire la prima aliquota di 10mila uomini, già finanziata, per la creazione di una riserva operativa volontaria che una volta partita potrà essere ulteriormente incrementata.

Si trovano così i 10mila uomini chiesti da Cavo Dragone? Secondo lei i giovani di oggi sarebbero disposti ad arruolarsi?

In parte, appunto, le ho già risposto. Oltre a quelle misure, le potrei fare un esempio che mi attirerà certamente critiche. Ma mi sentirei ipocrita se non la facessi. Abbiamo quasi 7mila militari impegnati in strade sicure e operazioni simili. Io da ministro della Difesa avevo diminuito il dispositivo a 5mila unità dicendo che si sarebbe dovuto continuare gradualmente a scendere. Il nuovo governo ha invece deciso di incrementare i numeri.

Sbagliato?

Credo che, nell’attuale fase, lo strumento militare dovrebbe essere proteso alle prime tre missioni delle forze armate: difesa dello Stato, sicurezza degli spazi euroatlantici ed euromediterranei, contributo alla sicurezza internazionale. L’impiego dei militari per la sicurezza urbana è un di più che non possiamo permetterci. Quell’ambito dovrebbe tornare interamente alle forze di polizia. So che è un discorso molto impopolare ma bisogna guardare la realtà.

Il ministro Crosetto ha detto che sarebbe necessario fare una valutazione degli effetti della nostra partecipazione alle missioni internazionali. E’ d’accordo?

Sono d’accordo con lui e con questa idea di un processo di accountability dell’impiego fuori area dei nostri militari. Allargando lo sguardo, nel Regno Unito si è appena concluso un lavoro molto serio a livello parlamentare sullo stato dello strumento militare britannico. Tra le altre cose, ha detto che esso è “over stretched”, sovra-stressato. Non può fare tutto, ma vanno individuate aree di impiego prioritarie. Penso che questa sia una direzione di riflessione interessante anche per noi, che opportunamente il ministro Crosetto ha sollecitato.

L’eventualità di una vittoria di Trump, con la ripresa dell’America first, metterebbe l’Europa davanti alla dura realtà che la sicurezza non è più un piatto gratis. L’Europa è pronta?

L’esigenza di una più bilanciata composizione delle capacità militari tra le due sponde dell’Atlantico prescinde da chi vincerà le elezioni americane a novembre. E’ innanzitutto un interesse europeo. Perché rafforzare il pilastro europeo della Nato significa compiere il primo passo decisivo verso la creazione della difesa europea. Per farlo sono necessarie scelte coraggiose: sugli investimenti, sulla cooperazione industriale e tecnologica, sulla costruzione di capacità militari comuni e sulla credibilità del loro impiego se necessario.

Prima ancora degli elementi tecnici, c’è una questione culturale. Lei dice che non si può pensare alla difesa come trent’anni fa, perché si è rotto un ordine mondiale. La questione riguarda la politica, prima ancora che gli eserciti. Di difesa europea si parla da trent’anni, ma l’ultimo Consiglio è stato sconfortante, o no?

Come spesso è accaduto. Sono d’accordo. Per le cose che ho appena detto la questione è più politica che tecnica. E’ questione di volontà, ma mi domando: se non ora, quando?

Dice Crosetto: per uno spostamento di bilancio, ci metto 8 mesi, Putin per spostare 400mila uomini ci mette meno di otto minuti.

La asimmetricità dei processi decisionali tra democrazie e autocrazie è un elemento innegabile, per questo dobbiamo rendere più efficienti i nostri processi decisionali, nazionali ed europei. Ma senza sacrificare neanche un grammo della nostra democrazia, altrimenti avremmo già perso la battaglia.

Però in campagna elettorale, non solo in Italia, di questo non si parla per timore delle opinioni pubbliche. Se dici “più aerei”, pare che vuoi bombardare, se dici “più soldi in difesa”, pare che li vuoi togliere agli ospedali. Non servirebbe una maggiore assunzione di responsabilità da parte della politica a parlare chiaro?

Sì, bisogna avere coraggio di parlarne, accettando anche le critiche. La difesa è innanzitutto difesa dello Stato, della democrazia, dei valori che sono alla base della nostra convivenza. E’ difesa della nostra sicurezza, presupposti tutti questi del nostro vivere sociale, asili e ospedali compresi.

Cito Marco Minniti: sicurezza è libertà. Forse però la prima sfida, che sembra semantica ma è politica, consiste proprio nell’assumere come centrale il concetto di “sicurezza”, che va oltre quello di “difesa” in termini tradizionali.

Esatto, a maggior ragione in una fase in cui l’ordine mondiale che conoscevamo è irrimediabilmente perduto. E il nuovo ordine è tutto da costruire e credo dovrà essere realizzato su una base più cooperativa che competitiva. Aggiungo: su una platea molto più ampia di quella compresa nell’ordine che è alle nostre spalle, a partire dal cosiddetto Global South che vuole essere protagonista del futuro che ci attende. Ma come in ogni cambiamento di fase tra la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova le minacce si fanno più insidiose e con effetti potenzialmente più devastanti. Rendere più forte la nostra difesa serva a tutelarci da queste minacce, non certo a crearle.

Lei intervenne alla presentazione di Med-Or, sul report dal titolo “Il nemico silente”. Si convenne sull’analisi che il terrorismo non era scomparso, era appunto silente. Ma la nuova destabilizzazione avrebbe potuto rappresentare un terreno fertile per una sua ripresa. Siamo di fronte a una nuova offensiva?

Potremmo. Purtroppo ciò di cui discutevamo allora è accaduto. Un mondo destabilizzato è un ambiente fertile per il terrorismo, anche nei confronti di chi è interessato alla destabilizzazione come purtroppo l’attentato a Mosca ha drammaticamente dimostrato. Sembrava che il terrorismo non fosse più una minaccia perché il nostro sguardo era rivolto a ciò che stava avvenendo sul confine orientale. Ma, appunto, era silente e in parte si stava riorganizzando.

Quali sono le aree sensibili?

I fatti di questi giorni ci portano a guardare verso il Caucaso. Ma anche l’Afghanistan e l’Africa, soprattutto le regioni del Sael, sono tutte realtà in cui stiamo assistendo alla rivitalizzazione di Islamic State a in parte, anche se minore, di Al Qaeda e di altri movimenti e soggetti terroristici, a volte in competizione a volte in cooperazione tra loro. Sono d’accordo con Marco Minniti: uno dei fattori su come ricostruire una prospettiva di cooperazione internazionale dovrebbe essere una lotta condivisa al terrorismo. Che come abbiamo purtroppo visto, è una minaccia sempre pronta a colpire

Vorrei fare con lei anche una riflessione su quel che succede nelle università italiane, dove c’è un’escalation di violenze all’insegna dell’antisemitismo. C’entra la reazione sproporzionata di Netanyahu, ma dice la storica Anna Foa, c’entrano più fattori tra cui la guerra di Putin: “Vedo una forte matrice ideologica, molti studenti sono comunisti e l’Italia è il paese dove il sostengo a Putin è più massiccio”.

Non muovo accuse verso nessuno, ma certamente le manifestazioni in alcune università italiane vedono una saldatura tra accuse a Israele con tinte di antisemitismo e critiche all’Occidente che assumono le argomentazioni del regime putiniano. Ma se volgiamo lo sguardo alle piattaforme social, questa saldatura trova una evidente e ancor più ampia conferma.

Le opinioni pubbliche occidentali sono il terzo fronte della guerra di Putin, il primo è l’Ucraina, il secondo è l’Africa. E infatti il Parlamento europeo ha approvato un mese fa una risoluzione contro le infiltrazioni russe. Stiamo parlando di questo?

Penetrare nelle opinioni pubbliche è un pezzo della dottrina della guerra ibrida fortemente sviluppata in Russia, che si muove su più linee d’azione in tutti i luoghi in cui è possibile costruire consenso alla narrazione più funzionale agli interessi di Mosca. Ormai i casi di utilizzo della disinformazione per destabilizzare le opinioni pubbliche sono molteplici e necessitano di un lavoro serio e determinato di confutazione delle falsità in essa contenute. E necessitano, a proposito di sfide politiche, della costruzione di una contro-narrazione basata sulla verità e su oggettivi elementi fattuali.

Il suo partito ha una posizione chiara sui “due popoli-due Stati”. Però non crede che dovrebbe confrontarsi con maggior vigore sul tema dell’antisemitismo, che non c’entra con le responsabilità di Netanyahu? Le chiedo: sono compagni che sbagliano o sono nemici della democrazia?

 L’antisemitismo è innanzitutto nemico dell’umanità. Riprende un’aberrazione intellettuale e morale che ha prodotto morte e sofferenze per milioni di ebrei. Una cosa è una legittima e vigorosa critica alla politica e alla responsabilità di Netanyahu anche in relazione alla drammatica sofferenza della popolazione di Gaza, un’altra è negare il diritto a Israele di difendersi e un’altra ancora è negare a Israele il diritto di esistere.

Chiede al suo partito più forza nel confrontarsi con un sentiment che pur alberga nel vasto mondo della sinistra?

Riguarda tutti. Stando nel nostro campo ci sono esempi di determinazione nella discussione pubblica. Io ho aderito a Sinistra per Israele e non posso non ringraziare Piero Fassino e chi con lui condivide la responsabilità della direzione di questa associazione nel contrastare le posizioni di cui ho appena parlato.

Finora anche grazie a lei il Pd ha tenuto sul sostegno all’Ucraina. Alcuni dei capilista alle Europee, da Cecilia Strada a Marco Tarquinio sono dichiaratamente contrari all’invio alle armi. Non mi dica che il pluralismo è una ricchezza. Non sono cedimenti?

Io non ho né l’autorità né la propensione individuale a porre o mettere veti sulle persone. Ho invece l’interesse a fa sì che il nostro partito, pur nel rispetto del pluralismo che come dice lei è una ricchezza, mantenga una linea chiara e intellegibile sull’Ucraina, che è in questo momento la questione delle questioni e non ammette spazi per ambiguità.

Traduco: il pluralismo deve stare dentro una comune accettazione di una collocazione internazionale, non è pensabile un pluralismo su quale essa debba essere.

Non avrei potuto dirlo meglio.

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