Che cosa ha fatto per noi l’Europa: lo stop ai prodotti realizzati con il lavoro forzato - la Repubblica

Che cosa ha fatto per noi l’Europa: lo stop ai prodotti realizzati con il lavoro forzato

Che cosa ha fatto per noi l’Europa: lo stop ai prodotti realizzati con il lavoro forzato

Il nuovo regolamento affida alla Commissione il compito di stabilire quali sono i criteri per identificare le forme di sfruttamento

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ROMA – Nel mondo ci sono 27,6 milioni di persone, tra le quali molti minorenni, costrette al lavoro forzato, schiavi moderni che fanno guadagnare ai loro sfruttatori 236 miliardi di dollari l’anno, 64 miliardi in più rispetto al 2014. Un dato drammatico, quello dell’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale del lavoro, ma adesso l’Unione Europea intende dare il suo contributo per arginare se non il lavoro, almeno i profitti di chi lo sfrutta. Il 5 marzo è stata raggiunta l’intesa tra Parlamento e Consiglio sul regolamento che vieta la vendita sul territorio dei 27 Paesi Ue dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato. ll 13 marzo il Coreper, il consiglio degli ambasciatori, ha confermato il consenso degli Stati membri (astenuti Germania, Ungheria, Repubblica Ceca, Bulgaria, Slovacchia, Lituania; riserva di scrutinio per Svezia e Austria).

Con la plenaria di aprile arriverà anche il via libero definitivo del Parlamento a suggellare le nuove norme, che entreranno in vigore entro due anni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del regolamento.

Che cos’è il lavoro forzato

Non esistono parti del mondo esenti dal lavoro forzato, ma il report dell’Ilo rileva come i profitti illegali totali annui siano più alti in Europa e Asia centrale (84 miliardi di dollari), seguiti da Asia e Pacifico (62 miliardi di dollari), Americhe (52 miliardi di dollari), Africa (20 miliardi di dollari) e Stati arabi (18 miliardi di dollari). Al primo posto c’è lo sfruttamento sessuale forzato a fini commerciali, che rappresenta il 73% del totale dei profitti illegali, benché rappresenti solo il 27% del numero totale di vittime. E qui evidentemente il regolamento Ue non è operativo, come non riguarda il lavoro domestico (2,6 miliardi di profitto).

Le nuove norme Ue invece riguardano l'industria, con 35 miliardi di dollari di profitto, seguita dai servizi (20,8 miliardi), e dall'agricoltura (5,0 miliardi). I profitti illegali, spiega l’Ilo, «sono i salari che appartengono di diritto ai lavoratori ma che invece rimangono nelle mani dei loro sfruttatori».

Le linee guida della Commissione

Il regolamento si applica alle aziende Ue ed extra Ue che operano nel territorio dell’Unione Europea, purché abbiano almeno mille dipendenti. La Commissione Europea dovrà istituire una banca dati contenente informazioni verificabili e regolarmente aggiornate sui rischi del lavoro forzato.

Dovrà inoltre mettere a punto i criteri e le linee guida per le aziende e per le autorità di regolamentazione, per individuare la portata e la gravità del presunto lavoro forzato; la quantità o il volume dei prodotti immessi o resi disponibili sul mercato dell'Unione; la quota delle parti del prodotto che potrebbero essere realizzate con il lavoro forzato nel prodotto finale; la vicinanza degli operatori economici ai sospetti rischi del lavoro forzato nella loro catena di approvvigionamento e la loro influenza per affrontarli.

Autorità competenti

Per le indagini al di fuori del territorio Ue la competenza è della Commissione, mentre se la questione che riguarda lo sfruttamento del lavoro sorge nel territorio di uno Stato membro, sarà l'autorità competente di quello Stato membro a condurre le indagini, informando le autorità di altri Stati che risultassero coinvolti o la Commissione.

L'accordo garantisce il diritto di difesa degli operatori economici, che possano essere ascoltati in tutte le fasi dell'indagine.

Le sanzioni

Le sanzioni previste comprendono misure quali il naming and shaming (la pubblicazione dei nomi dei trasgressori), il ritiro dal mercato dei prodotti dell'azienda o ammende pari ad almeno il 5% del fatturato netto globale. Le aziende extra-Ue che non rispettano le regole saranno poi escluse dagli appalti pubblici europei.

L'accordo tuttavia chiarisce che se solo una parte del prodotto è stata realizzata con il lavoro forzato, ed è sostituibile, l'ordine di smaltimento si applica solo alla parte interessata. Ad esempio, se una parte di un’auto è prodotta con lavoro forzato, quella parte dovrà essere smaltita, ma non tutta l’auto.

La presidenza belga

L’accordo al termine del trilogo è stato annunciato con grande soddisfazione dalla presidenza belga di turno della Ue: «Gli stati membri dicono no ai prodotti realizzati con il lavoro forzato», ha scritto su X, sottolineando come l’accordo sia stato raggiunto a tempo di record.

E il sindacato europeo

Soddisfazione anche da parte del sindacato europeo, Etuc: «Nessuna azienda può trarre profitto dalla schiavitù moderna. – ha affermato Claes-Mikael Stahl, vicesegretario generale – Questo divieto generalizzato sui prodotti del lavoro forzato pone l’accento sui diritti delle persone, e stabilisce un importante precedente per un approccio basato sui diritti per ripulire le nostre catene di approvvigionamento».

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