African Pride. L’Orso d’oro della Berlinale 74 a Dahomey (nessuno se lo aspettava, chi dice di averlo pronosticato mente) lo possiamo riassumere rozzamente così: una giuria presieduta da un’attrice di origine africana (Lupita Nyiong’o, di famiglia kenyota) premia una regista di origine africana (Mati Diop, di famiglia senegalese) per un documentario sulla restituzione della Francia a un paese africano, il Benin, di una ventina di statue trafugate ai tempi della colonizzazione. A chi volesse saperne di più rimando alla mia recensione scritta prima dell’Orso. Orso politico? Non urlo allo scandalo, dico che il film è assai bello, che la talentuosa Mati Diop ha saputo trasformare in puro cinema e visione quello che poteva essere un film gonfio di retorica. Però l’Orso sta piuttosto largo a Dahomey e rischia pure di diventare un fardello ingombrante per un film volutamente sommesso e di piccole dimensioni, contenuto in soli 67 minuti.
Continuiamo a scorrere la lista dei vincitori. Segue, dopo l’Orso, il Gran premio della giuria. Che va a un nome glorioso del cinema coreano, Hong Sangsoo, habitué dei festival e spesso premiato, non però con il riconoscimento maggiore (tranne una volta, al Festival di Locarno). Il suo A Traveler’s Needs (recensione) è un incanto, la migliore riuscita di Hong da parecchi anni a questa parte, prossima ai suoi capolavori passati come On the Beach at Night Along e Hill of Freedom, grazie anche alla presenza determinante di Isabelle Huppert. Dopo di lui nel palmarès arriva un altro mammasantissima dei festival e del cinema d’autore, il francese Bruno Dumont, cui è andato il Premio della giuria per L’Empire (recensione). Non la sua cosa migliore, non all’altezza, solo per stare agli ultimi anni, né di France e nemmeno di Jeannette, ma pur sempre un Dumont in purezza che, riprendendo i suoi proletari e lumpenproletari di P’tit Quinquin, riscrive le saghe tipo Star Wars in chiave parodistica e a modo suo (quindi riferimenti al grand guignol, ai freak da circo, allo slapstick, al medievalismo).
Continuiamo: premio per la Migliore regia al dominicano Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe (recensione), il mio personale Orso d’oro, il film più folle e fuori-norma di tutta la Berlinale (anche più di Dumont), ma di una follia dotata di una sua ratio, di un progetto e un’idea di cinema. Una narrazione a schegge spaziali e temporali che disorienta lo spettatore (e il critico) intorno a un ippopotamo pensante di nome Pepe, e basti questo. Châpeau alla giuria che coraggiosamente lo ha inserito nel palmarès. Un altro passo ed ecco che ci imbattiamo nel premio per la Migliore interpretazione (da tre edizioni è genderless), andato stavolta, ed è la prima dall’abolizione dei premi maschili e femminili, a un uomo, il Sebastian Stan (attore americano di origini rumene) della commedia A Different Man (recensione) di Aaron Schimberg, peraltro già presentata al Sundance. Film ambizioso ma tortuoso e irrisolto nelle sue intenzioni come nei risultati, molto più ambigui di quanto non possano sembrare a una prima visione. Quanto a Stan, interpretazione diligente ma non direi da premio. C’era di meglio, tanto per fare un solo nome: Lily Farhadpour, protagonista dell’iraniano My Favourite Cake, uno dei favoriti della vigilia e invece clamorosamente ignorato dalla giuria. Per la Migliore interpretazione non protagonista sacrosanto il premio andato a Emily Watson che nel mediocre irlandese Small Thing Like These (recensione) è l’unica presenza degna di nota, una madre superiora che al suo solo apparire incute terrore e soggezione.
Andiamo avanti (i palmarès non finiscono mai). Lo slot Migliore sceneggiatura è stato assegnato a Matthias Glasner (anche regista) per Sterben (Morire), di gran lunga il più bello dei film tedeschi visti a questa Berlinale. Tre ore che non pesano – invece si sono visti film di un’ora e mezza che sembravano cinque – su una famiglia scrutata nei suoi componenti e nelle sue dissonanze. Un film che, in un registro ironico-grottesco e con stridori punk affronta il comico e il tragico e si confronta con il tabù della malattia e della morte, messe in scena entrambe senza filtri. Un film destinato a crescere nel tempo. Ultimo riconoscimento per i film del concorso: quello per l’Outstanding Artistic Contribution – meglio stavolta lasciare l’inglese – andato a Martin Gschlacht per la fotografia dell’austriaco Des Teufels Bad (Il bagno del diavolo) diretto da Veronika Franz (moglie di Ulrich Seidl) e Severin Fiala. Coppia che s’era fatta conoscere e aprezzare con lo psycho-horror Goodnight Mommy, ma che qui ha parzialmente deluso. Il bagno del diavolo racconta la distruzione di una donna in un villaggio austro-alpino del Settecento, tra miseria e pregiudizi. Un film vistosamente a tesi neofemminista, come molti a questo festival, talmente prevedibile, benché sacrosanto nella denuncia, che se ne intuisce la conclusione già dopo mezz’ora. Oltretutto con un narrazione sconnessa e contraddittoria. E però un finale potente, di ebbrezza collettiva e orrore vero e puro che salva il film dal fallimento.
Qualche parole per chi non ha vinto. Sorprendente, come si diceva, l’esclusione dell’iraniano My Favourite Cake, molto amato dal pubblico. Forse per la giuria troppo popolare e ancorato a forme di cinema e linguaggi assai convenzionali. Tra i vinti bisogna mettere anche il nepalese e un po’ tibetano Shambhala, notevole per quasi due ore ma che negli ultimi caotici 20-25 minuti si perde e si autodistrugge. Peccato. E gli italiani? Né Another End di Piero Messina né tantomeno Gloria! di Margherita Vicario (fischiato e buizzato alla proiezione stampa al Palast) hanno mai avuto serie chance di finire tra i premiati, nonostante il solito trionfalismo dei corrispondenti di tanta nostra stampa a Berlino.
Vado velocemente su altre sezioni. I premi di Encounters, la sezione della Berlinale dedicata al cinema più autoriale, li trovate a questo link (e pure i nomi dei giurati). Dei vincenti ho visto solo il brasiliano Cidade; campo di Juliana Rojas, comprensivo di una clamorosa scena di sesso lesbico di cui (forse) si parlerà. A proposito: il lesbismo ha egemonizzato lo spazio Lgbtqi+ che nelle precedenti edizioni era stato occupato in gran parte prima dall’omosessualità maschile poi del transgenderismo. Un accenno al premio per il Migliore documentario (link): ha vinto No Other Land, co-firmato dal palestinese Basel Adra e dall’israeliano Yuval Abraham, cui si aggiungono Hamdan Ballal e Rachel Szor (il primo credo palestinese, la seconda israeliana). Ma l’autore fondamentale, quello che più appare nel film e lo marchia, è Basel Adra, palestinese cresciuto in un villaggio della West Bank – nei territori sotto amministrazione ANP -, villaggio del quale con cinepresa, telefoni e altri device ha filmato e testimoniato la distruzione da parte dell’esercito israeliano. L’ho visto l’altro giorno al Colosseum, in SchönhauserAllee, quasi a Pankow, gremito da una folla che alla fine ha decretato a Adra e Abraham (ma soprattutto al primo) un’ovazione al grido martellante di Palestina libera. Chiaro che avrebbe vinto a mani basse (e ha pure vinto il premio assegnato dal pubblico nella sezione Panorama).
I PREMI DEL CONCORSO
Orso d’oro per il migliore film
Dahomey di Mati Diop
Orso d’argento Gran premio della giuria
Yehoaengjaui pilyo (A Traveler’s Needs) di Hong Sangsoo
Orso d’argento Premio della giuria
L’Empire di Bruno Dumont
Orso d’argento per la migliore regia
Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe
Orso d’argento per la Migliore interpretazione protagonista
Sebastian Stan in A Different Man
Orso d’argento per la Migliore interpretazione non protagonista
Emily Watson in Small Things Like These
Orso d’argento per la migliore sceneggiatura
Matthias Glasner per Sterben
Orso d’argento per l'”Oustanding Artistic Contribution”
Martin Gschlacht per la fotografia di Des Teufels Bad (Il bagno del diavolo)