Berlinale 2024: Orso d’oro a “Dahomey”. I vincitori e i vinti. Il commento

“Dahomey” di Mati Diop, il film vincitore dell’Orso d’oro

African Pride. L’Orso d’oro della Berlinale 74 a Dahomey (nessuno se lo aspettava, chi dice di averlo pronosticato mente) lo possiamo riassumere rozzamente così: una giuria presieduta da un’attrice di origine africana (Lupita Nyiong’o, di famiglia kenyota) premia una regista di origine africana (Mati Diop, di famiglia senegalese) per un documentario sulla restituzione della Francia a un paese africano, il Benin, di una ventina di statue trafugate ai tempi della colonizzazione. A chi volesse saperne di più rimando alla mia recensione scritta prima dell’Orso. Orso politico? Non urlo allo scandalo, dico che il film è assai bello, che la talentuosa Mati Diop ha saputo trasformare in puro cinema e visione quello che poteva essere un film gonfio di retorica. Però l’Orso sta piuttosto largo a Dahomey e rischia pure di diventare un fardello ingombrante per un film volutamente sommesso e di piccole dimensioni, contenuto in soli 67 minuti.
Continuiamo a scorrere la lista dei vincitori. Segue, dopo l’Orso, il Gran premio della giuria. Che va a un nome glorioso del cinema coreano, Hong Sangsoo, habitué dei festival e spesso premiato, non però con il riconoscimento maggiore (tranne una volta, al Festival di Locarno). Il suo A Traveler’s Needs (recensione) è un incanto, la migliore riuscita di Hong da parecchi anni a questa parte, prossima ai suoi capolavori passati come On the Beach at Night Along e Hill of Freedom, grazie anche alla presenza determinante di Isabelle Huppert. Dopo di lui nel palmarès arriva un altro mammasantissima dei festival e del cinema d’autore, il francese Bruno Dumont, cui è andato il Premio della giuria per L’Empire (recensione). Non la sua cosa migliore, non all’altezza, solo per stare agli ultimi anni, né di France e nemmeno di Jeannette, ma pur sempre un Dumont in purezza che, riprendendo i suoi proletari e lumpenproletari di P’tit Quinquin, riscrive le saghe tipo Star Wars in chiave parodistica e a modo suo (quindi riferimenti al grand guignol, ai freak da circo, allo slapstick, al medievalismo).
Continuiamo: premio per la Migliore regia al dominicano Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe (recensione), il mio personale Orso d’oro, il film più folle e fuori-norma di tutta la Berlinale (anche più di Dumont), ma di una follia dotata di una sua ratio, di un progetto e un’idea di cinema. Una narrazione a schegge spaziali e temporali che disorienta lo spettatore (e il critico) intorno a un ippopotamo pensante di nome Pepe, e basti questo. Châpeau alla giuria che coraggiosamente lo ha inserito nel palmarès. Un altro passo ed ecco che ci imbattiamo nel premio per la Migliore interpretazione (da tre edizioni è genderless), andato stavolta, ed è la prima dall’abolizione dei premi maschili e femminili, a un uomo, il Sebastian Stan (attore americano di origini rumene) della commedia A Different Man (recensione) di Aaron Schimberg, peraltro già presentata al Sundance. Film ambizioso ma tortuoso e irrisolto nelle sue intenzioni come nei risultati, molto più ambigui di quanto non possano sembrare a una prima visione. Quanto a Stan, interpretazione diligente ma non direi da premio. C’era di meglio, tanto per fare un solo nome: Lily Farhadpour, protagonista dell’iraniano My Favourite Cake, uno dei favoriti della vigilia e invece clamorosamente ignorato dalla giuria. Per la Migliore interpretazione non protagonista sacrosanto il premio andato a Emily Watson che nel mediocre irlandese Small Thing Like These (recensione) è l’unica presenza degna di nota, una madre superiora che al suo solo apparire incute terrore e soggezione.
Andiamo avanti (i palmarès non finiscono mai). Lo slot Migliore sceneggiatura è stato assegnato a Matthias Glasner (anche regista) per Sterben (Morire), di gran lunga il più bello dei film tedeschi visti a questa Berlinale. Tre ore che non pesano – invece si sono visti film di un’ora e mezza che sembravano cinque – su una famiglia scrutata nei suoi componenti e nelle sue dissonanze. Un film che, in un registro ironico-grottesco e con stridori punk affronta il comico e il tragico e si confronta con il tabù della malattia e della morte, messe in scena entrambe senza filtri. Un film destinato a crescere nel tempo. Ultimo riconoscimento per i film del concorso: quello per l’Outstanding Artistic Contribution  – meglio stavolta lasciare l’inglese – andato a Martin Gschlacht per la fotografia dell’austriaco Des Teufels Bad (Il bagno del diavolo) diretto da Veronika Franz (moglie di Ulrich Seidl) e Severin Fiala. Coppia che s’era fatta conoscere e aprezzare con lo psycho-horror Goodnight Mommy, ma che qui ha parzialmente deluso. Il bagno del diavolo racconta la distruzione di una donna in un villaggio austro-alpino del Settecento, tra miseria e pregiudizi. Un film vistosamente a tesi neofemminista, come molti a questo festival, talmente prevedibile, benché sacrosanto nella denuncia, che se ne intuisce la conclusione già dopo mezz’ora. Oltretutto con un narrazione sconnessa e contraddittoria. E però un finale potente, di ebbrezza collettiva e orrore vero e puro che salva il film dal fallimento.
Qualche parole per chi non ha vinto. Sorprendente, come si diceva, l’esclusione dell’iraniano My Favourite Cake, molto amato dal pubblico. Forse per la giuria troppo popolare e ancorato a forme di cinema e linguaggi assai convenzionali. Tra i vinti bisogna mettere anche il nepalese e un po’ tibetano Shambhala, notevole per quasi due ore ma che negli ultimi caotici 20-25 minuti si perde e si autodistrugge. Peccato. E gli italiani? Né Another End di Piero Messina né tantomeno Gloria! di Margherita Vicario (fischiato e buizzato alla proiezione stampa al Palast) hanno mai avuto serie chance di finire tra i premiati, nonostante il solito trionfalismo dei corrispondenti di tanta nostra stampa a Berlino.
Vado velocemente su altre sezioni. I premi di Encounters, la sezione della Berlinale dedicata al cinema più autoriale, li trovate a questo link (e pure i nomi dei giurati). Dei vincenti ho visto solo il brasiliano Cidade; campo di Juliana Rojas, comprensivo di una clamorosa scena di sesso lesbico di cui (forse) si parlerà. A proposito: il lesbismo ha egemonizzato lo spazio Lgbtqi+ che nelle precedenti edizioni era stato occupato in gran parte prima dall’omosessualità maschile poi del transgenderismo. Un accenno al premio per il Migliore documentario (link): ha vinto No Other Land, co-firmato dal palestinese Basel Adra e dall’israeliano Yuval Abraham, cui si aggiungono Hamdan Ballal e Rachel Szor (il primo credo palestinese, la seconda israeliana). Ma l’autore fondamentale, quello che più appare nel film e lo marchia, è Basel Adra, palestinese cresciuto in un villaggio della West Bank – nei territori sotto amministrazione ANP -, villaggio del quale con cinepresa, telefoni e altri device ha filmato e testimoniato la distruzione da parte dell’esercito israeliano. L’ho visto l’altro giorno al Colosseum, in SchönhauserAllee, quasi a Pankow, gremito da una folla che alla fine ha decretato a Adra e Abraham (ma soprattutto al primo) un’ovazione al grido martellante di Palestina libera. Chiaro che avrebbe vinto a mani basse (e ha pure vinto il premio assegnato dal pubblico nella sezione Panorama).

I PREMI DEL CONCORSO

Orso d’oro per il migliore film
Dahomey di Mati Diop

Orso d’argento Gran premio della giuria
Yehoaengjaui pilyo (A Traveler’s Needs) di Hong Sangsoo

Orso d’argento Premio della giuria
L’Empire di Bruno Dumont

Orso d’argento per la migliore regia
Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe

Orso d’argento per la Migliore interpretazione protagonista
Sebastian Stan in A Different Man

Orso d’argento per la Migliore interpretazione non protagonista
Emily Watson in Small Things Like These

Orso d’argento per la migliore sceneggiatura
Matthias Glasner per Sterben

Orso d’argento per l'”Oustanding Artistic Contribution”
Martin Gschlacht per la fotografia di Des Teufels Bad (Il bagno del diavolo)

 

 

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Berlinale 2024. Recensione di DAHOMEY di Mati Diop, vincitore dell’Orso d’oro

La giuria composta da Lupita Nyong’o (presidente), Albert Serra, Christian Petzold, Jasmine Trinca, Anne Hui, Brady Corbet, Oksana Zabuzhko ha assegnato l’Orso d’oro della Berlinale 2024 al documentario Dahomey di Mati Diop. Ripropomgo la mia recensione (scritta prima dell’assegnazione del premio).

Abdel FatehDahomey, documentario di Mati Diop. Concorso.
Nel 2021 la Francia ha restituito allo stato africano del Benin 23 opere d’arte locali trafugate e portate a Parigi ai tempi della colonizzazione. Mati Dop, già gran premio a Cannes 2019 per Atlantique, filma il ritorno dall’esilio delle statue. E quello che poteva facilmente scadere in un film retorico, tronfio e celebrativo diventa invece una lezione di cinema: di un cinema terso, immaginifico, in grado di tascolorare dal realistico all’onirico. Voto 7+
Mati Diop, un nome da imprimersi nella mente: regista francese di radici senegalesi già vincitrice del gran premio della giuria, il secondo in ordine di importanza nel palmarès, a Cannes 2019 con Atlantique. Film che, arrivato in concorso sottotraccia, si rivelò una più che discreta sorpresa, mescolando il realismo e il dramma dell’emigrazione dall’Africa verso l’Europa al cinema di genere degli zombie movies. Dopo qualche anno di assenza, Mati Diop (da non confondere con la quasi omonima, ma non parente, Alice Diop, anche lei regista di successo e talento: suo il molto premiato Saint-Omer, lanciato a Venezia 2022) è tornata presentando qui alla Berlinale un documentario assai interessante e di una bellezza abbagliante, un film tut’altro che minore e che conferma il suo talento, la trasparenza e la pulizia del suo sguardo, la capacità di metamorfizzare il puro dato di realtà in visione e forma. Tutto, in questo Dahomey che sarebbe potuto cadere facilmente nel didascalico, è puro cinema: schivando le molte insidie di un film probabilmente nato su commissione per celebrare un accordo epocale tra Francia e lo stato africano del Benin. Succede, siamo nel 2021, che Macron accetti, dopo richieste ripetute per anni, di restituire al Benin parte delle opere d’arte – soprattutto statue – depredate e portate in Francia ai tempi dell colonizzazione. Sono 23 manufatti di enorme valore storico e artistico (quanto l’arte africana abbia influenzato quella europea e americana del Novecento è cosa nota: vedi alla voce Picasso) appartenenti al regno del Dahomey, potenza dell’Africa occidentale fino all’inizio del ventesimo secolo quando passò sotto il dominio di Parigi. Sarebbe stato facile adottare il registro della retorica e del pompierismo, eppure Dahomey è qualcos’altro e molto altro. Una lezione di cinema. La prova che con la mdp si può andare oltre alla piattezza di tanto cinema del reale. Anche, soprattutto, una finestra spalancata sull’Africa di oggi, sulla sua ribollente vitalità, sulle nuove generazioni. In una sorta di animismo postmodermo, la regista fa parlare una delle statue, la più maestosa, o meglio, ci fa ascoltare un flusso di coscienza in cui il sovrano rappresentato nell’opera riflette sulla sua storia, sulla gloria del passato, sulla deportazione e l’esilio, sull’attesa, finalmente premiata, del riscatto. Con oggettività Diop ci restituisce il complesso cerimoniale della restituzione, i passaggi  burocratici, la partenza e l’arrivo in Benin tra ali di folla esultante. Mantenendosi sempre alla giusta distanza da ogni trionfalismo, anzi trasformano anche i più noiosi dei protocolli in occasione di indagine etnografica e sociale (come la sequenza, magnifica, che riprende i potenti del Benin e relative consorti arrivare a palazzo per la celebrazione dell’evento nel tripudio dei colori e pure, talvolta, del kitsch dei loro vestiti tradizionali). Ma è l’ultima parte la migliore, qualle in cui la mdp entra in una università a riprendere il dibattito, anche aspro, degli studenti sulla restituzione. C’è molta ideologia, ci sono molti stereotipi nei discorsi dei ragazzi e delle ragazze, c’è un african pride senza molte sfumature che esalta la propria identità e cultura e demonizza quella europea. Ma trapelano anche dubbi, riflessioni più sottili, critiche e autocritiche. Come quando qualcuno ricorda che il regno del Dahomey non fu solo gloria e potenza, ma anche conquista e sottomissione schiavistica di altri popoli. Si resta  conquistati da questi ragazzi appassionati, ansiosi di conoscere, di dire, di farsi ascoltare, di non essere più i dannati della terra come scriveva Fanon dei loro padri (anzi nonni), ma protagonisti.

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Berlinale 2024. PEPE di Nelson Carlos De Los Santos Arias. Il viaggio dell’ippopotamo

Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias. con Jhon Narváez, Sor María Ríos, Fareed Matjila, Harmony Ahalwa, Jorge Puntillón García.
Il film più ostico del concorso. Il più anarchico e fuori-norma. Tant’è che alla proiezione stampa molti se ne sono scappato via dopo mezz’ora. Impossibile da descrivere: diciamo che in Pepe si parla di ippopotami pensanti, di Pablo Escobar, di villaggi amazzonici, di safari fotografici. Un film-enigma che si nasconde allo spettatore. Eppure di una potenza visionaria e evocativa assoluta. Voto tra il 7 e l’8
Amato (poco) e detestato (molto). Il più divisivo (una di quelle parole pche si dovrebbero evitare, come resilienza: scusate se ogni tanto ci casco) di tutta la Berlinale. Anche il più eccentrico, libero, radicale, anarchico, inclassificabile, fuori-norma. Risultato: transumanaza di critici di ogni nazionalità dopo mezz’ora verso l’uscita del Cinemaxx, la multisala dove si tiene la gran parte dei press screenings. Noia, orrore, indignazione. Non ci sono state risse tra entusiasti (“è un capolavoro!”) e detrattori (“è una boiata pazzesca!”) perché ormai non si usa più, ogni passione forte, rabbia compresa, va spenta, tenuta sotto controllo se no si passa per selvaggi, peggio, soggetti da psichiatrizzare E poi, azzuffarsi per il cinema oggi? Pepe è davvero un film difficile da maneggiare, anche da recensire perché sta tutto nel suo enigma, nel suo nascondersi a chi guarda, nel suo presentarsi come un mind-game. Ma bisogna pur spiegare e cercare di (far) capire. Proviamoci.
Partiamo dal regista: il dominicano Nelson Carlos De Los Santos Arias – il nome più lungo nella storia dei festival -, rivelatosi a metà anni Dieci a Locarno con lo scatenato e caraibico Cocote. E che qui fa il salto verso il cinema grande guardando alle lectio magistralis del messicano Carlos Reygadas e del suo Post Tenebras Lux. Dunque eccolo dilaniare ogni compattezza narrativa, spargere frammenti di storie apparentemente irrelati tra loro, procedere per accumulo e sovrapposizione di dettagli incongrui che solo più tardi l’eroico spettatore riuscirà (almeno parzialmente) a comporre in un insieme. L’audacia maggiore è dar voce a un ippopotamo, anzi intercettare il suo pensiero, il suo flusso di coscienza (operazione affine a quella di Mati Diop che in Dahomey “fa parlare e pensare” le statue) espresso in una voce fuori campo cavernosa, di volta in volta in lingue diverse: afrikaans (la lingua dei coloni boeri), mbukushu (lingua dei nativi della Namibia), tedesco, inglese, spagnolo. Con effetti a momenti suggestivi e perfino strazianti (il flusso di coscienza è post mortem), altri decisamente cringe, di massimo imbarazzo. Il prezzo da pagare se si osa l’inosabile. Oltre ai pensieri dell’ippopotamo, ripreso prima in Africa poi in un altrove assai lontano ma sempre liquido di fiumi limacciosi, il regista ci mostra, come in un diorama scoperto a poco a poco, altro: sentiamo parlare di Pablo Escobar, il boss dei boss del narcotraffico colombiano, e della sua passione per gli animali esotici e feroci; sentiamo voci di militari in assetto di guerra sulle tracce di un nemico misterioso; vediamo scene di vita da un villaggio nella foresta amazzonica; assistiamo a ottusi turisti europei in Sud Africa in un safari fotografico. In un cinema ora convulso ora contemplativo che ci tiene in ostaggio e ci frustra impedendoci di capire. Come si fa però a non farsi travolgere dalla bellezza di quanto vediamo, dal tropicalismo, dai paesaggi immensi? Le spedizioni notturne sul grande fiume, i riflessi del cielo e della luna, il senso di una natura enorme, dilatata, incombente, ancora padrona del mondo e in grado di incutere soggezione agli umani. E poi, la paura nel villaggio per quella mostruosa creatura che si annida nell’acqua (e qui siamo in pieno monster movie, tra Lo squalo e Piranha Paura, con sempre sullo sfondo l’archetipico Moby Dick). Uno dei migliori film del concorso. Se non si arriva al capolavoro è per via di quel flusso di coscienza dell’ippopotamo espresso in lingue umane. Sì, certo, sono quelle dei mondi che ha attraversato, ma attribuirgliele è pur sempre un atto di impropria antropomorfizzazione. Che è quello di cui si accusava Walt Disney quando umanizzava topi e paperi.

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Berlinale 2024. DAHOMEY di Mati Diop – recensione. Il ritorno di guerrieri e re

Dahomey, documentario di Mati Diop. Concorso.
Nel 2021 la Francia ha restituito allo stato africano del Benin 23 opere d’arte locali trafugate e portate a Parigi ai tempi della colonizzazione. Mati Dop, già gran premio a Cannes 2019 per Atlantique, filma il ritorno dall’esilio delle statue. E quello che poteva facilmente scadere in un film retorico, tronfio e celebrativo diventa invece una lezione di cinema: di un cinema terso, immaginifico, in grado di tascolorare dal realistico all’onirico. Voto 7+
Mati Diop, un nome da imprimersi nella mente: regista francese di radici senegalesi già vincitrice del gran premio della giuria, il secondo in ordine di importanza nel palmarès, a Cannes 2019 con Atlantique. Film che, arrivato in concorso sottotraccia, si rivelò una più che discreta sorpresa, mescolando il realismo e il dramma dell’emigrazione dall’Africa verso l’Europa al cinema di genere degli zombie movies. Dopo qualche anno di assenza, Mati Diop (da non confondere con la quasi omonima, ma non parente, Alice Diop, anche lei regista di successo e talento: suo il molto premiato Saint-Omer, lanciato a Venezia 2022) è tornata presentando qui alla Berlinale un documentario assai interessante e di una bellezza abbagliante, un film tutt’altro che minore e che conferma il suo talento, la trasparenza e la pulizia del suo sguardo, la capacità di metamorfizzare il puro dato di realtà in visione e forma. Tutto, in questo Dahomey che sarebbe potuto cadere facilmente nel didascalico, è puro cinema: schivando le molte insidie di un film probabilmente nato su commissione per celebrare un accordo epocale tra Francia e lo stato africano del Benin. Succede, siamo nel 2021, che Macron accetti, dopo richieste ripetute per anni, di restituire al Benin parte delle opere d’arte – soprattutto statue – depredate e portate in Francia ai tempi dell colonizzazione. Sono 23 manufatti di enorme valore storico e artistico (quanto l’arte africana abbia influenzato quella europea e americana del Novecento è cosa nota: vedi alla voce Picasso) appartenenti al regno del Dahomey, potenza dell’Africa occidentale fino all’inizio del ventesimo secolo quando passò sotto il dominio di Parigi. Sarebbe stato facile adottare il registro della retorica e del pompierismo, eppure Dahomey è qualcos’altro e molto altro. Una lezione di cinema. La prova che con la mdp si può andare oltre alla piattezza di tanto cinema del reale. Anche, soprattutto, una finestra spalancata sull’Africa di oggi, sulla sua ribollente vitalità, sulle nuove generazioni. In una sorta di animismo postmodermo, la regista fa parlare una delle statue, la più maestosa, o meglio, ci fa ascoltare un flusso di coscienza in cui il sovrano rappresentato nell’opera riflette sulla sua storia, sulla gloria del passato, sulla deportazione e l’esilio, sull’attesa, finalmente premiata, del riscatto. Con oggettività Diop ci restituisce il complesso cerimoniale della restituzione, i passaggi  burocratici, la partenza e l’arrivo in Benin tra ali di folla esultante. Mantenendosi sempre alla giusta distanza da ogni trionfalismo, anzi trasformano anche i più noiosi dei protocolli in occasione di indagine etnografica e sociale (come la sequenza, magnifica, che riprende i potenti del Benin e relative consorti arrivare a palazzo per la celebrazione dell’evento nel tripudio dei colori e pure, talvolta, del kitsch dei loro vestiti tradizionali). Ma è l’ultima parte la migliore, qualle in cui la mdp entra in una università a riprendere il dibattito, anche aspro, degli studenti sulla restituzione. C’è molta ideologia, ci sono molti stereotipi nei discorsi dei ragazzi e delle ragazze, c’è un african pride senza molte sfumature che esalta la propria identità e cultura e demonizza quella europea. Ma trapelano anche dubbi, riflessioni più sottili, critiche e autocritiche. Come quando qualcuno ricorda che il regno del Dahomey non fu solo gloria e potenza, ma anche conquista e sottomissione schiavistica di altri popoli. Si resta  conquistati da questi ragazzi appassionati, ansiosi di conoscere, di dire, di farsi ascoltare, di non essere più i dannati della terra come scriveva Fanon dei loro padri (anzi nonni), ma protagonisti.

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Berlinale 2024. LA MIA CLASSIFICA FINALE del concorso

Concorso terminato, quindi ecco la classifica definitiva. Negli ultimi giorni qualcosa di buono si è visto, soprattutto Pepe e Shambhala, entrambi non perfetti e lacunosi, ma assai promettenti, finestre sul cinema che verrà. Ho introdotto per meglio sgranare la lista dei 20 film qualche cambiamento di valutazione di poco conto rispetto alla precedente classifica parziale. Sale Hong Sangsoo: da 8 a 8 e mezzo. Scende a 7+ dal precedente tra il 7 e l’8 Assayas. Cresce invece di quasi un punto Dahomey di Mati Diop, che più passano i giorni e più mi sembra notevole. Migliora leggermente La Cocina di Ruizpalacios: da 5 e mezzo a un quasi sufficiente tra il 5 e il 6. Passano da 7 a 7+ Sterben e da 7 e a 7 e mezzo My Favourite Cake.
Ho diviso la classifica in tre fasce: alta, media, bassa. Purtroppo il terzo gruppo, quello degli insufficienti, è piuttosto folto, a riprova del non eccelso livello complessivo. Male i due italiani, Another End e Gloria! Sabato sera al Berlinale Palast proclamazione dei vincitori.

al secondo posto: ‘Pepe’ di Nelson Carlos De Los Santos Arias



Prima fascia

1) A Traveler’s Needs
(Yeohaengjaui Pilyo) di Hong Sangsoo Voto 8 e mezzo
2) Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias Voto tra il 7 e l’8
3) My Favourite Cake (Keyke Manboobe Man) di Maryam Moghaddam e Behtash Snaeeha Voto 7 e mezzo
4) Shambhala di Min Banadur Bam Voto 7 e mezzo
5) Sterben di Matthias Glasner Voto 7+
6) Hors du temps (Fuori dal tempo) di Olivier Assayas Voto 7+
7) Dahomey di Mati Diop Voto 7+

Seconda fascia
8) Mé El Ain (Who Do I Belong To)
di Maryam Joobeur Voto 7
9) L’Empire di Bruno Dumont Voto 6 e mezzo
10) In Liebe, eure Hilde (From Hilde, with Love) di Andreas Dresen Voto 6

Terza fascia
11) Des Teufels Bad (The Devil’s Bath)
di Veronika Franz e Severin Fiala Voto 6 meno
12) La Cocina
di Alonso Ruizpalacios Voto tra il 5 e il 6
13) A Different Man di Aaron Schimberg Voto 5+
14) Architecton di Victor Kossakovsky Voto 5
15) Another End di Piero Messina Voto 5
16) Vogter (Sons) di Gustav Möller Voto tra il 4 e il 5
17) Small Thing Like These di Tim Mielans Voto 4 e mezzo
18) Black Tea di Abderrahmane Sissako. Voto 4 e mezzo
19) Gloria! di Margherita Vicario. Voto 4 e mezzo
20) Langue étrangère di Claire Burger Voto 4

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