La Signora dello zoo di Varsavia Recensione

La signora dello zoo di Varsavia: recensione del film sul salvataggio di centinaia di ebrei polacchi con Jessica Chastain

13 novembre 2017
2.5 di 5
72

La tragedia del ghetto di Varsavia visto da un inedito punto di vista.

La signora dello zoo di Varsavia: recensione del film sul salvataggio di centinaia di ebrei polacchi con Jessica Chastain

Il racconto dell'Olocausto al cinema è sempre più frequentemente legato all’insidioso genere delle ‘storie vere’. Dopo migliaia di racconti di quella tragedia senza precedenti, sempre di più si sente la necessità di proporla sotto forma di ritratto edificante dei pochi che fecero qualcosa per opporsi. Accade anche nel film di Niki Caro, La signora dello zoo di Varsavia, adattamento di un libro di Diane Ackerman, con un punto di vista piuttosto inedito, quello di uno zoo. Un luogo di pace della capitale polacca, poco lontano dalle devastazioni del ghetto, nell’epoca d’oro dei giardini zoologici, vetrina per uno sbalordito occidente dell’esotismo che aveva conquistato tanti esploratori pochi decenni prima. Nel bel mondo in cerca di emozioni forti, anche nell’elegante Varsavia, gli animali selvaggi allietavano i salotti, ostinatamente ancorati all’idea che la Guerra non sarebbe realmente scoppiata.

La signora del titolo è Jessica Chastain, nel titolo originale relegata al ruolo di moglie, alle prese con un nuovo accento, questa volta polacco. Va detto subito che è uno di quei casi in cui la versione originale stona ancora di più di quella doppiata, con tutti che parlano un più o meno claudicante inglese nel cuore della Polonia di 70 anni fa. L’invasione del Paese, nel settembre 1939, provoca la chiusura dell’amato zoo, portato avanti con grande amore dai coniugi Zabinski. C’è un loro collega tedesco, però, proprietario dello zoo di Monaco, che gli propone di collaborare e di custodire gli animali fino alla fine della guerra, “che sarà molto breve”. Lo dice con cognizione di causa, almeno riecheggiando la parola d’ordine ufficiale del Reich nazista, visto che presto tornerà a trovarli, e a insidiare la bella moglie, con una fiammante divisa da ufficiale dell’esercito d’occupazione. Un ruolo perfetto per il prezzemolino delle coproduzioni con la Germania, l’ineffabile Daniel Brühl, questa volta in versione bruto nazi. Possibile che uno scienziato amante degli animali possa essere anche un attivo esecutore dello sterminio nazista? 

La musica di un pianoforte e la purezza degli animali creano un contrasto con la follia della guerra, come mostra la Caro fin troppe volte. Un bisonte da monta diventa allegoria della ferocia nazista, mentre gli animali rappresentano una fuga di tenerezza disinteressata, lontana dalla perfidia degli esseri umani. Con la scusa di continuare ad accudire animali, i meno nobili maiali utili per dar da mangiare alle truppe, gli Zabinski riescono a nascondere negli anni della guerra centinaia di ebrei, portandoli fuori dal ghetto. Una storia vera, quella di una coppia coraggiosa che ha trovato il suo meritato spazio nel giardino dei Giusti dello Yad Vashem di Gerusalemme.

Peccato che il valore etico della storia raccontata non sia accompagnato da una piena riuscita cinematografica. Il contrasto fra la quiete della natura e la brutalità dell’invasore, da un inedito e promettente punto di vista come quello di uno zoo cittadino, viene banalizzato da una sceneggiatura piatta e prevedibile, ancorata a una retorica mielosa e scene madri che fanno consumare il condotto lacrimale della brava Jessica ChastainCerca di raccontare tutto, senza approfondire a sufficienza niente, perdendo di vista opportunità molto ghiotte, come il rapporto di potere che diventa attrazione fra il nazi collega Bruehl e la Chastain; “ci possiede”, dice al marito in preda alla gelosia. 

Occasione smarrita di rendere in pieno l’indifferenza inconsapevole degli animali, e della natura; quel senso di pace atavico che fu testimone dei più atroci massacri.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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