La sfida delle mogli: recensione del film di Peter Cattaneo
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    La sfida delle mogli: recensione del film di Peter Cattaneo

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    I soldati, la guerra, gli eroi che combattono per la patria generalmente sono oggetti, e soggetti, di un protagonismo narrativo senza precedenti. Da La battaglia di Hacksaw Ridge a Salvate il soldato Ryan, la maggior parte delle pellicole sulla guerra pone l’io narrante al centro di una battaglia, tra trincee e faide sanguinose. La sfida delle mogli (Military Wives il titolo originale) è un film sulla guerra, che parla della guerra, ma che non la mostra mai. La narrazione è nelle mani delle mogli dei militari inglesi che, con i loro partner che prestano servizio in Afghanistan, vivono assieme in una sorta di cittadina paramilitare.

    Durante questa convivenza lunga e solitaria, Kate, la moglie del colonnello, decide di partecipare alle attività quotidiane di un gruppo di donne, capitanante da Lisa, che sul fronte interno si ritrova sporadicamente la mattina per tentare di distrarsi dal pensiero dei mariti lontani. Kate, notando la totale disorganizzazione di quel gruppo che non fa altro che bere caffè o birra, capisce che è ora di rivoluzionare quegli incontri per dare uno scossone a queste donne che vivono quotidianamente tramortite dal pensiero dei loro mariti in pericolo. Così decide di fondare un coro, un coro piccolo ma coeso, che rapidamente diventerà fautore di un movimento globale.

    La sfida delle mogli è un film che parla della guerra ma che non la mostra mai

    Una storia vera, o almeno ispirata al primo coro di queste military wives. Un film che unisce la scintilla narrativa di Sister Act con il gusto amaro della solitudine, perno attorno al quale le donne protagoniste di La sfida delle mogli dipanano la loro esistenza, costrette a dover dire addio a scadenze regolari ai loro mariti, scrivendosi lettere strazianti, sperando che quelle parole non siano le ultime che potranno aver scritto ai rispettivi coniugi. Ciò a cui si assiste è una storia di base commovente, tragica ma che viene ribaltata dal tono comico delle scene e da una scrittura vivace, fresca, che mette l’accento sul senso di abbandono quotidiano delle military wives, destinate a fare da madri e da padri ai loro figli, a dover tenere insieme una famiglia che vive una sottrazione indelebile, con un senso di morte e di paura nel cuore.

    La sfida delle mogli

    Il coro è un salvagente strabiliante, è la loro occasione di sfogarsi, di usare la voce come strumento di liberazione, di potersi concentrare per qualche ora su qualcosa che non sia la guerra. Il coro diventa uno strumento simbolico di agitazione culturale, attraverso cui dire il non detto, guardare ciò che non si osava guardare: il coro diventa anche l’azione prosecutrice di un movimento globale, che darà il via a tutta una serie di cori militari in giro per il mondo, in cui le donne possono avere libero accesso ad uno spazio fibrillante, che restituisce loro unità, sorellanza e un pizzico di pace interiore. Kate e Lisa hanno trasformato un hobby terapeutico in un successo da capogiro.

    Military Wives non tramortisce per inventiva

    Le sceneggiatrici Rosanne Flynn e Rachel Tunnard hanno scritto questo film come una ballata per l’unità femminile; l’unica pecca della narrazione è che spesso continua a porre blocchi palesemente artificiali sulla strada per l’obiettivo finale delle donne, che è quello di esibirsi alla Royal Albert Hall di Londra per un concerto di beneficenza. Questo per fare in modo che il traguardo finale possa essere recepito ancora più dolcemente e anche in modo disatteso, dai più ingenui. Da questo punto di vista La sfida delle mogli non tramortisce per inventiva. Nonostante questo resta una pellicola godibile, che sa come commuovere, come far riflettere e ci restituisce l’immagine delle military wives come donne sempre in divenire.

    La sfida delle mogli arriverà nelle sale italiane il 9 aprile, distribuito da Eagle Pictures.

    Overall
    5.5/10

    Verdetto

    La sfida delle mogli è una pellicola godibile, divertente, che ci restituisce l’immagine delle military wives come donne sempre in divenire. L’unica pecca è la narrazione, che, soprattutto sul finale, diventa artificiosa e opaca.

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    Confidenza: recensione del film con Elio Germano

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    Confidenza

    Si apre con un uomo intenzionato a gettarsi dalla finestra Confidenza, film con cui Daniele Luchetti torna al grande schermo a 4 anni di distanza da Lacci. Un elemento che riporta immediatamente alla mente L’inquilino del terzo piano, in una delle tante sfumature polanskiane di un vero e proprio thriller psicologico mascherato da dramma familiare borghese, basato sull’omonimo romanzo di Domenico Starnone. Un’opera con cui Luchetti, dopo il già citato Lacci, torna a ragionare sullo scorrere del tempo in relazione al maschio contemporaneo, afflitto in questo caso da un segreto in grado di segnare irrimediabilmente l’immacolata immagine del protagonista.

    Al centro della vicenda c’è Pietro (Elio Germano), professore di liceo che inizia una relazione con la sua ex allieva Teresa (la sorprendente Federica Rosellini). Una relazione improvvisamente stravolta da una sorta di gioco sentimentale in cui i due decidono di confessarsi reciprocamente la più grave azione da loro commessa. Il segreto rivelato da Pietro è così indicibile da minare alla radice la sua relazione con Teresa e da segnare la sua intera esistenza, nonostante gli ottimi risultati conseguiti in ambito lavorativo. Molti anni dopo, la figlia del protagonista Emma (Pilar Fogliati) lavora per fare ottenere al padre una prestigiosa onorificenza da parte del Presidente della Repubblica, introdotta proprio da Teresa, diventata nel frattempo un’acclamata matematica. Fra paura, paranoia e ipocrisia, si riannodano i lacci dell’esistenza di Pietro.

    Confidenza: un inquietante thriller psicologico mascherato da dramma familiare

    Confidenza

    Confidenza è la precisa e ficcante decostruzione di un uomo apparentemente perfetto, attento a costruire un’immagine di professore attento alle necessità dei suoi studenti (parla ripetutamente di pedagogia dell’affetto) e di studioso illuminato (nonostante sostenga più volte di non avere un vero e proprio metodo), ma animato sottopelle da pulsioni contrastanti e dal timore di poter perdere in un attimo tutto ciò che ha raggiunto, proprio a causa di quella confessione concessa a Teresa. La natura di questo segreto rimane sfumata (anche se tutto lascia pensare che si tratti di una violenza sessuale) e si trasforma nel più classico dei MacGuffin, muovendo il racconto in terreni accidentati e a tratti addirittura sinistri.

    La parabola di Pietro attraversa il matrimonio con Nadia (Vittoria Puccini), emblematicamente somigliante a Teresa e matematica come lei, tocca l’ambiguo rapporto con la potente Tilde (Isabella Ferrari) ma torna sempre alla sua ex allieva, che aleggia costantemente sulla sua vita, in bilico fra dolce ricordo sentimentale e inquietante presenza, dai tratti quasi demoniaci in alcune visioni. Elio Germano tratteggia un nuovo personaggio respingente dopo quelli da lui interpretati in Favolacce, America Latina e Palazzina Laf, ma la vera sorpresa è Federica Rosellini, alfa e omega del racconto, al tempo stesso amante, confidente, minaccia e unico pericoloso porto in cui attraccare.

    Un film tutt’altro che consolatorio

    Daniele Luchetti e Francesco Piccolo adattano nuovamente Domenico Starnone dopo La scuola e Lacci, riuscendo nel non facile intento di fare parlare i silenzi, il rimosso e il non detto, ancora più importanti di ciò che in Confidenza viene effettivamente mostrato. Una scrittura accompagnata dalla straniante colonna sonora di Thom Yorke, costantemente in aperto contrasto con la narrazione e perciò perfetta per delineare un uomo che si trova sempre in un posto diverso rispetto alle sue emozioni, come gli dice Teresa, l’unica persona che conosce la sua vera natura. Il risultato è un lavoro prismatico, debordante e a tratti contraddittorio, che rimesta nel thriller, flirta con l’horror ma ripara troppo spesso in stantie dinamiche familiari e in una critica alla borghesia più narcisista ed egoriferita, complessivamente meno interessante di ciò che le sta intorno.

    Non mancano metafore urlate come quella del limone, simbolo per eccellenza della fedeltà in amore che agli occhi di Pietro è sempre marcio, false piste e improbabili what if, che esplodono in un finale di raro coraggio, destinato a fare scervellare gli spettatori sulla vera natura di un racconto circolare, incessantemente in bilico fra realtà e immaginazione. Un’opera tutt’altro che perfetta (il trucco dei protagonisti in alcune fasi delle loro vite lascia a desiderare), che ha però il merito di non essere mai confortante o consolatorio, stimolando al contrario la fantasia dello spettatore e ponendo al contempo scomodi interrogativi su chi siamo, come ci rappresentiamo e cosa desideriamo celare. Il tutto con al centro una figura maschile sempre più fragile, dominata in amore e ancorata solo a maschere in procinto di cadere.

    Confidenza è nelle sale italiane dal 24 aprile, distribuito da Vision Distribution.

    Confidenza

    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    Daniele Luchetti firma un angosciante thriller psicologico, tutt’altro che perfetto ma capace di scavare nell’animo dello spettatore.

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    Baby Reindeer: recensione della miniserie Netflix

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    Baby Reindeer

    Siamo ormai abituati a vedere serie accompagnate da una massiccia campagna promozionale e dal finto entusiasmo di content creator opportunamente foraggiati, che nella stragrande maggioranza dei casi si rivelano i classici topolini partoriti dalla montagna, destinati a cadere ben presto nel dimenticatoio. A volte capita però di imbattersi in veri e propri gioielli, capaci di parlare al cuore degli spettatori e di diffondersi quasi esclusivamente grazie alla dirompente forza del passaparola. È questo il caso di Baby Reindeer, serie ideata, scritta e interpretata da Richard Gadd sulla base del suo omonimo one man show, ispirato a sua volta a un’amara e inquietante vicenda di stalking di cui è stato vittima. Un tema sempre attuale e purtroppo familiare a molte persone, afflitte dai comportamenti tossici e possessivi di soggetti mentalmente instabili e incapaci di rispettare i limiti imposti dalla civiltà e dal rispetto nei confronti del prossimo.

    Nel corso di 7 episodi, ci addentriamo nell’abisso esistenziale di Donny (Richard Gadd), giovane barista che nel tempo libero si improvvisa comico, con risultati scarsi e a tratti imbarazzanti. La sua vita, già segnata da traumi passati e da una turbolenta sfera sentimentale, cambia nel momento in cui conosce l’apparentemente inoffensiva Martha (Jessica Gunning), che entra nel bar di Londra dove Donny lavora per bere qualcosa, dichiarando però di non avere i soldi per pagare. Mosso da comprensione e solidarietà umana, il protagonista le offre una tazza di tè. Quella che inizialmente sembra semplice gratitudine e ingenuo interesse sentimentale da parte di una persona chiaramente sola, si trasforma in una vera e propria ossessione, fatta di valanghe di email sgrammaticate e inopportune, insistenti richieste di incontro e continue irruzioni nella vita privata di Donny, con conseguenze emotive devastanti.

    Baby Reindeer: un doloroso viaggio nell’abuso, nel trauma e nello stalking

    Baby Reindeer

    Thriller come Attrazione fatale e Misery non deve morire hanno tratteggiato in maniera raggelante la violenza fisica e psicologica imposta da una donna nei confronti di un uomo, alimentata pulsioni malsane. Baby Reindeer sembra battere gli stessi territori, per poi tramutarsi in un racconto molto più profondo e complesso, che scandaglia le personalità dei protagonisti da diversi punti di vista, generando emozioni contrastanti e contraddittorie nello spettatore. L’ampio minutaggio garantito dalla dimensione seriale è per una volta provvidenziale, e permette a Richard Gadd di riversare in arte il suo torbido vissuto, con una sincerità e una limpidezza invidiabili.

    Quella della “Piccola renna” (nomignolo affibbiato da Martha a Donny, da cui deriva il titolo) non è solo una parabola di paura e dolore, ma anche e soprattutto una lucida riflessione sulla dinamica fra vittima e carnefice, che non è fatta solo di bene e male, ma anche di imperscrutabili zone grigie, in cui il vissuto di ognuno di noi entra prepotentemente in gioco, spalancando la porta a pericoli e sofferenze. Il quarto lacerante episodio di Baby Reindeer offre infatti uno straziante spaccato della vita di Donny prima del suo incontro con Martha, fondamentale per comprendere la sua eccessiva tolleranza nei confronti della sua sinistra spasimante nei momenti iniziali della vicenda. Una digressione narrativa tanto pregevole quanto devastante, che evidenzia la facilità con cui le persone che hanno subito gravi shock possono cedere alle più insidiose lusinghe, faticando enormemente a lasciarsi alle spalle rapporti debilitanti.

    Un racconto autobiografico

    Baby Reindeer

    Con il passare dei minuti e degli episodi, Baby Reindeer sviscera nel dettaglio diversi risvolti della vita di Donny, pressoché incomprensibili se presi singolarmente ma allo stesso tempo fondamentali tessere di un intricato puzzle fatto di violenza, abuso, dipendenza e senso di colpa. Fra le pagine più sconvolgenti c’è sicuramente il rapporto fra Donny e lo sceneggiatore di successo Darrien (Tom Goodman-Hill), una sorta di irraggiungibile modello per un comico fallito come lui, capace però di trasformarsi in temibile minaccia. Di segno opposto è invece il rapporto fra il protagonista e la dolcissima Teri (Nava Mau), donna trans che rappresenta uno dei pochi momenti di luce e speranza nella sua esistenza, vanificato però dal timore di Donny nei confronti di una società retrograda e ancorata a stupidi pregiudizi.

    A dominare sugli altri personaggi che gravitano intorno al protagonista è però la formidabile Jessica Gunning, che riesce nel non facile intento di rendere Martha una villain tanto spregevole e respingente quanto fragile. Il percorso tortuoso e tormentato di Donny lo porta a tollerare e addirittura a entrare in empatia con la sua personalità evidentemente malata, in cui la mitomania viaggia di pari passo con l’invadenza e con la più asfissiante possessività. Martha è al contempo donna goffa e impacciata, folle persecutrice, fredda calcolatrice, bugiarda seriale e amante ostinata. Tante facce di una medaglia che si chiama stalking, fenomeno che è necessario comprendere e contrastare, grazie anche alla mediazione culturale offerta da prodotti come Baby Reindeer.

    Il finale di Baby Reindeer

    Come in Joker, il punto di vista di un comico fallito sulla vicenda non fa che acuire il disagio dello spettatore, costantemente in bilico fra rigetto e profonda empatia per un’esistenza penosa e umiliante. La comicità cercata e quasi mai raggiunta da Donny diventa inoltre fondamentale per uno dei momenti più struggenti di Baby Reindeer, in cui l’esperienza del protagonista è contemporaneamente spunto da stand-up comedy, straziante elemento drammatico e fedele autobiografia dello stesso Richard Gadd. Un cortocircuito fra realtà, finzione e ricostruzione che lascia profondamente scossi, come raramente succede nella serialità contemporanea.

    La storia circolare di Baby Reindeer sfocia in un finale emblematico, che non impone allo spettatore un’unica spiegazione ma lascia invece la porta aperta a più possibilità, rimarcando però ancora una volta la stretta correlazione fra la vittima e il carnefice. Il percorso di Donny ci ricorda infatti che chi ha subito un abuso, un trauma o una violenza porta con sé cicatrici invisibili ma tangibili, che se non analizzate e interiorizzate a sufficienza possono portare a un atteggiamento eccessivamente indulgente o addirittura a comportamenti altrettanto pericolosi e violenti. I ripetuti disclaimer con cui Baby Reindeer invita le persone vittime di stalking o abusi a cercare supporto sono in questo senso più importanti che mai.

    I riferimenti di Baby Reindeer

    Baby Reindeer

    Fra espliciti omaggi a Lost (la mail da cui scrive Martha è ma4815162342@yahoo.com) e alla celeberrima scena del burro di Ultimo tango a Parigi (riproposta brevemente con un’inquadratura analoga), Baby Reindeer scava nell’animo dello spettatore, dando vita al dolente racconto di un aspirante Re per una notte che si ritrova all’inferno, vittima di un’esperienza in cui convivono la vergogna, l’ingenuità, la gentilezza e il bisogno di una goccia di amore in un mare di dolore. Un’esperienza da cui chiunque è separato solo da una semplice tazzina di tè.

    Baby Reindeer è disponibile su Netflix.

    Overall
    8.5/10

    Valutazione

    Baby Reindeer precipita lo spettatore in un inquietante, amaro e indimenticabile viaggio nel contraddittorio rapporto tra vittima e carnefice.

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    Challengers: recensione del film di Luca Guadagnino con Zendaya

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    Challengers

    Fra le migliori sorprese cinematografiche degli ultimi mesi c’è sicuramente Past Lives, triangolo scaleno amoroso semi-autobiografico di Celine Song, incentrato su una donna in bilico fra le sue radici sudcoreane e la sua vita adulta negli Stati Uniti, simboleggiate da due uomini a cui la protagonista è legata da sentimenti diversi e contrastanti. Un racconto struggente che inevitabilmente attinge anche dall’esperienza del marito di Celine Song, Justin Kuritzkes. Quest’ultimo, a sua volta sceneggiatore, è l’autore dello script del nuovo film di Luca Guadagnino Challengers, anch’esso non a caso basato su un sorprendente triangolo amoroso, seppure dalle sfumature diverse rispetto a quello narrato in Past Lives.

    A fare da sfondo alle vicende dei protagonisti in questo caso non c’è il contrasto fra diverse culture ed esperienze, ma un microcosmo chiuso e ben delineato come quello del tennis, teatro di una rivalità che si spinge abbondantemente oltre i limiti del campo da gioco. Gli sfidanti (o ancora meglio I duellanti) in questione sono Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor), amici e talentuosi tennisti che dopo aver vissuto in simbiosi e con discreti successi il periodo giovanile si ritrovano dopo diversi anni in un torneo del Challenger Tour. Una manifestazione di scarsa rilevanza mediatica, che ad Art (divenuto uno dei migliori tennisti del mondo) serve per guadagnare fiducia, mentre per Patrick (che invece naviga nei bassifondi della classifica mondiale) è invece essenziale per sbarcare il lunario.

    A separare i due è stato l’incontro con Tashi Duncan (Zendaya), oggetto del desiderio di entrambi e a sua volta promettente tennista, fermata però da un grave infortunio al ginocchio e riciclatasi come allenatrice del marito Art. Fra continui salti avanti e indietro nel tempo, scopriamo i dettagli di una storia fatta di passione, rivalità e sentimenti repressi.

    Challengers: un torbido triangolo amoroso dentro e fuori dal campo di tennis

    Challengers
    Photo credit: Niko Tavernise © 2024 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc.

    Dopo le escursioni horror di Suspiria e Bones and All, Luca Guadagnino torna nei territori di Chiamami col tuo nome, firmando una portentosa riflessione sulla giovinezza, sulle sue pulsioni e sui suoi segreti, esaltata dal gioco del tennis e dalle numerose metafore che questo sport sottende, come già mostrato fra gli altri da Woody Allen in Match Point. A tennis si può giocare in 2 o in 4, o eventualmente allenarsi in solitudine. Non si può giocare in 3, come invece cercano di fare i protagonisti di Challengers nella partita della loro vita e dei loro sentimenti turbolenti e cangianti.

    Mentre Chiamami col tuo nome aveva diversi punti di contatto con Io ballo da sola, toccante lavoro della principale fonte di ispirazione di Luca Guadagnino, ovvero Bernardo Bertolucci, Challengers gioca nello stesso terreno di un’altra opera del compianto maestro emiliano, The Dreamers. Un racconto a sua volta figlio di Jean-Luc Godard e in particolare dei suoi capolavori Bande à part e Jules e Jim, pregevole testimonianza di un cinema che reinventa continuamente se stesso, adattandosi ai mutamenti della società, dei sentimenti e del pubblico. In Challengers, lo stile e la personalità di Luca Guadagnino sono però sempre evidenti. Qui convivono infatti la sua vena pop (in passato è stato regista di videoclip per Paola & Chiara, Elisa e altri artisti) e lo sguardo spietato nei confronti dei suoi personaggi e delle loro fragilità, insieme a una palpitante sensualità, acuita da sfumature omoerotiche.

    La formidabile prova di Zendaya

    Challengers
    Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures

    La martellante colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, che lo stesso regista ha voluto più in linea con un rave party che con una partita di tennis, si fonde con un trionfo di corpi desiderati, esibiti, spezzati e infine ritrovati. La cifra stilistica di un racconto tortuoso e spiazzante, in cui i personaggi spesso si comportano in maniera opposta a ciò che ci si aspetterebbe da loro, pur rimanendo paradossalmente sempre coerenti con se stessi. Josh O’Connor e Mike Faist tratteggiano con invidiabile espressività due personaggi caratterialmente agli antipodi, uniti però dal gioco del tennis e dai loro sentimenti sempre più morbosi e dirompenti. A dominare su tutto e tutti è però Zendaya, finalmente centrale in una grande produzione cinematografica.

    La giovane star statunitense dà vita a una prova poliedrica e ricca di sfaccettature, candidandosi a un ruolo di primo piano nella prossima stagione dei premi. La sua Tashi Duncan è un perfetto equilibrio di contraddizioni: provocante e appassionata ma allo stesso tempo determinata e ambiziosa; oggetto del desiderio e al contempo burattinaia dei due uomini a lei devoti; pallina che idealmente oscilla fra i due lati del campo ma anche racchetta che sa colpire duro i due sfidanti, come in quel «Lo so» in risposta a un «Ti amo», mutuato da Han Solo. Il filo conduttore di una storia nata dal tennis e destinata a concludersi proprio sul terreno di gioco, in uno degli epiloghi più irriverenti e bizzarri visti recentemente sul grande schermo.

    Challengers: un finale irriverente e spiazzante

    Photo credit: Niko Tavernise © 2024 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc.

    Luca Guadagnino si conferma un patrimonio del cinema italiano e internazionale, riuscendo a rendere interessante e spettacolare uno sport che per molti è sinonimo di noia, cornice di una riflessione amara sullo scorrere del tempo, sul deterioramento dei rapporti e sulla circolarità dell’esistenza.

    Challengers è in programmazione dal 24 aprile nelle sale italiane, distribuito da Warner Bros.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    Luca Guadagnino firma una riflessione amara sullo scorrere del tempo, sul deterioramento dei rapporti e sulla circolarità dell’esistenza, con il tennis a fare da sfondo a un torbido triangolo amoroso.

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