In Camera, la recensione dello spietato esordio di Naqqash Khalid

In Camera: lo spietato esordio di Naqqash Khalid, dove la lotta di classe è una guerra tra ultimi (in tv)

In concorso al Riviera International Film Festival una satira feroce del settore cinematografico e televisivo nel Regno Unito. Tra razzismo e alienazione nel lavoro, in cui la competizione per il successo è contro chi è ancora più debole

Dodici quindici, quattro quarantacinque. Aden vuole fare l’attore e quando va a fare i provini lo chiamano così, che sia l’orario in cui ha il provino o il numero di protocollo per il ruolo per cui si è candidato. Numeri diversi ma giorni tutti uguali. Quelli che vive il protagonista (Nabhaan Rizwan) del film In Camera di Naqqash Khalid. A volte la sala d’attesa ricorda quella degli ospedali, altre somiglia più a un carro bestiame. Cinque o sei ragazzi SWANA (Southwest Asia and North Africa) in t-shirt bianca illuminati da una luce al neon. Cianotici e appiccicati, uno dopo l’altro provano ad accaparrarsi i pochi ruoli da “accento mediorientale” – come una donna bianca dice ad Aden vestito da attentatore suicida – che l’industria del cinema britannico lascia loro.

Dopo essere stato presentato in anteprima al Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary a luglio 2023, ed essere passato per lo Zurigo Film Festival e al BFI London Film Festival a ottobre, In Camera è arrivato al Riviera International Film Festival. Il film potrebbe far parte della recente schiera di cinema inglese d’esordio di formazione, da Aftersun di Charlotte Wells a How to Have Sex di Molly Manning Walker. Senonché la satira feroce colpisce il settore che il film lo accoglie. Complice per rappresentare le intersezioni, non così astratte, tra razzismo, lotta di classe, capitalismo e alienazione nel lavoro. Lo stesso Khalid ha detto che avrebbe potuto esistere “una versione più appetibile” di questo film ma che “semplicemente” non era interessato a girarla. In camera, infatti, non è un film attraente. È complicato e cerebrale. Di certo, molto ambizioso.

In Camera, trama e visioni

Così il film inizia con un uomo morto e degli investigatori che mormorano luoghi comuni sui cadaveri. Il set è una serie poliziesca. Durante le pause tra le riprese, il protagonista insoddisfatto (Aston McAuley) litiga al telefono con il suo agente perché vorrebbe lasciare lo show. Il tipo insanguinato, vittima dell’omicidio, gli fa un complimento, ricevendo in risposta un brusco “Sure”. Ma il protagonista di In Camera, accompagnato fuori dal set da un’assistente di produzione che gli assicura che “è tutto”, è questa insignificante comparsa, Aden.

Una carriera ripetitiva, audizioni fallimentari, le sale d’attesa e i numeri di protocollo con cui viene apostrofato. Per pagare l’affitto che condivide con il coinquilino medico Bo (Rory Fleck Byrne), Aden si ingegna, interpretando anche il figlio morto di una donna in lutto in un progetto terapeutico. Con questa versione condensata di Alps di Yorgos Lanthimos, passo dopo passo l’identità di Aden muore a ogni defunto che interpreta, a ogni ruolo posticcio dedicato solo alla sua carnagione. Da un’industria che etichetta anche chi è più di una semplice comparsa. Basti pensare all’ammiccante “asian dude” con cui un regista (forse lo stesso Khalid?) viene definito dall’agente dell’iniziale protagonista del poliziesco.

Insomma, non sta bene nessuno. Bo è distrutto da turni massacranti, tra visioni e incubi, una doccia di sangue in cui si lava e una fusione con una lavatrice. Non se la passa meglio il nuovo inquilino, Conrad (Amir El-Masry). Anzi, forse peggio. Espressione di un introiettato sistema di leggi per cui lui, fotografo di moda di successo, sente di dover dispensare consigli di carriera individuale. Mostrando un’affinità culturale con Aden, insistendo sul fatto che è il “loro” momento per stare al centro dell’attenzione, che “loro” sono “la moneta corrente”, riferendosi alle intenzioni dei direttori dei casting sulla diversità e l’inclusione, lo spinge a fare quello che oggi chiamiamo personal branding.

La guerra degli ultimi

Potrebbe darsi che In Camera metta insieme troppe idee. Forse per l’urgenza di dire troppe cose, la sceneggiatura a volte si perde, tra ronzii di ape che non si sa dove finiscono e accenni di riflessione sui disturbi alimentari. Per l’urgenza di dire tutto sul disagio di una generazione e la sua impossibilità di trovare un posto nel mondo, di abitarlo in postura eretta.

Ad avere una struttura ossea molto solida sono invece le interpretazioni del cast. Su tutti un impassibile Nabhaan Rizwan. Che non crolla mai, non esplode e non implode, stoico ma apatico. Fino alla fine. Quando dall’ultimo gradino della scala attoriale (e sociale), è arrivato al penultimo, dopo essersi accaparrato un ruolo diverso da un morto. Adesso qualcuno viene da lui a fargli un complimento ed è lui a rispondere “Sure”. L’unica certezza è che la guerra si fa al gradino più basso del tuo, una guerra tra ultimi.