l'uomo di Kiev - Ritiri Filosofici

l’uomo di Kiev

Nel 1966 lo scrittore americano Bernard Malamud, figlio di due ebrei russi immigrati in America,  dà alle stampe uno dei suoi migliori romanzi, The Fixer (in italiano il titolo è L’uomo di Kiev). Il romanzo valse al suo autore il National Book Award e il premio Pulitzer, due dei maggiori riconoscimenti ai quali uno scrittore americano possa aspirare.

L’uomo di Kiev, al di là del suo indiscutibile valore letterario, evidenzia un aspetto filosofico degno di nota.

La storia narrata nel libro si basa su una vicenda vera, accaduta in Russia durante il periodo zarista, esattamente tra il 1911 e il 1913. L’antisemitismo è, ancora una volta, il fertile terreno sul quale il potere costruisce il suo avversario. All’interno di questo orizzonte si iscrive la triste vicenda di Yakov Bok, ebreo della provincia ucraina, tuttofare poverissimo che si trasferisce a Kiev in cerca di fortuna. Yakov, per guadagnarsi da vivere ed evitare problemi a causa della sua religione di appartenenza, si spaccia per un gentile, per un goy. Egli viene però ingiustamente accusato di un omicidio orribile, compiuto nei confronti di un bambino a scopi rituali, afferma l’accusa. La rabbia antisemita della grande città lo travolge, facendolo così diventare in un attimo l’uomo sul quale abbattere tutto l’odio razzista dei suoi recenti concittadini. L’uomo povero venuto dalla campagna è innocentemente accusato, ed è ora il centro del dibattito e della rabbia del paese.

Quando si trasferisce dalla provincia alla città di Kiev, Yakov Bok porta con sé solo pochissime cose: i suoi attrezzi, con i quali si è sempre guadagnato qualcosa per vivere, e qualche libro. Fra questi ultimi spiccano i testi di un filosofo ebreo, anche lui perseguitato e costretto – in una grande città – ad eclissarsi nel silenzio. Il filosofo in questione è Baruch Spinoza. Yakov è affascinato dalla cultura: è di certo un ebreo molto simile a Spinoza, si definisce varie volte (anche in fase processuale, il che gli creerà molti problemi) un libero pensatore, e ci dice fin da subito che «il poco che so l’ho imparato da me: un po’ di storia e geografia, un po’ di scienze, di aritmetica, un paio di libri di Spinoza. Non molto, ma meglio di niente» (p. 33). Cose che un ebreo ortodosso considera treyf, ovvero impure, pertanto eretiche.

Yakov, un uomo che appare dimenticato da chiunque, forte solo della sua curiosità, mentre lotta coi crampi della fame, legge Spinoza. A Kiev, «nelle ore libere cominciò a frequentare assiduamente le librerie del quartiere Podol, in cerca di libri a poco prezzo. Comprò una Vita di Spinoza da leggere nelle serate solitarie nella sua stanza sopra la scuderia. Era possibile imparare qualcosa dalla vita di un altro?» (p. 94). Yakov è ipnoticamente attratto da quelle parole, e si percepisce una certa continuità fra la condizione esistenziale di Baruch e quella dell’uomo di Kiev. La fame, insomma, non impedisce a Yakov di farsi domande, forse unico rifugio di una vita pressoché senza senso: «sfibrato dalla storia, Yakov tornò a Spinoza, rileggendo i capitoli di critica biblica sulla superstizione e i miracoli, che sapeva quasi a memoria. Se Dio esisteva, dopo aver letto Spinoza aveva chiuso bottega ed era diventato un’idea» (p. 95). Quest’ultima frase, figlia del genio di Malamud, è centrale e descrive tutta la potenza che il pensiero di Spinoza esercita sulla mente dello sciagurato Yakov.

Ma la vera cifra della potenza del pensiero spinoziano emerge dal dialogo che Yakov, appena incarcerato, ha con Bibikov, il giudice delle indagini preliminari. Quest’ultimo chiede a Yakov perché in casa ci fossero dei libri di Spinoza. «Perché era ebreo?», chiede. No, risponde Yakov, non era suo interesse quello religioso: «no, signor giudice. Non sapevo niente di lui, finché non mi sono imbattuto nel libro… alla sinagoga non ne sono precisamente entusiasti, se ha letto la storia della sua vita. Ho trovato il libro da un rigattiere di una città vicina, l’ho pagato un copeco e me ne sono andato maledicendomi perché avevo buttato via dei denari sudati. Poi ho letto qualche pagina, e non sono più riuscito a fermarmi, quasi fossi sospinto dal vento. Come le ho detto, non l’ho capito parola per parola, ma quando si ha a che fare con pensieri come quelli pare di volare a cavallo di una scopa. Da allora non sono più lo stesso» (p. 111.). Questa ammissione, e la descrizione del sentimento provato durante la lettura delle pagine di Spinoza, sono una forma di ringraziamento che Malamud rende al pensiero dell’ebreo olandese. Anche il suo Yakov non si sente più lo stesso, come trasportato da un vento inarrestabile. Il discorso con Bibikov entra nei particolari (il giudice infatti si espone, e dice a Yakov che Spinoza è uno dei suoi filosofi preferiti), fino a toccare il piano sociale e politico. Emerge qui la difficoltà di Bibikov di pensare spinozianamente la società («per Spinoza inoltre l’uomo è più libero quando partecipa alla vita della società»: p. 113), e di svolgere il suo ruolo: ovvero indagare su un ebreo per la sola necessità di doverlo incriminare, pur nella consapevolezza della sua innocenza. Qui Spinoza sembra abbandonare entrambi, come a dimostrare che il potere politico, ma soprattutto la sua applicazione rabbiosa nei confronti di una certa parte di popolazione, può sempre avere la meglio sulla modalità del pensiero, ed in definitiva anche sulla verità – cosa che, peraltro, lo stesso Spinoza conobbe sulla propria pelle.

Yakov trascorre mesi lunghissimi in isolamento, e il racconto di Malamud è straordinario, capace di descrivere la ritualità noiosa di un uomo maltrattato e quasi ucciso ogni giorno. Spinoza cade nel dimenticatoio, ma Yakov – a volte – ripensa a ciò che aveva, a quel poco che aveva prima di trasferirsi in città: «per dimenticare un po’ la sua miseria, nei giorni vuoti e interminabili il tuttofare cercava di ricordare le cose che aveva letto. Ricordava episodi della vita di Spinoza […]. Era morto giovane, povero e perseguitato, eppure era stato il più libero degli uomini. […] La Necessità aveva liberato Spinoza e imprigionava Yakov. Il pensiero aveva proiettato Spinoza nell’universo, ma i poveri pensieri di Yakov erano chiusi in una cella» (p. 259). La condizione disumana della carcerazione porta Yakov a provare un comprensibile astio nei confronti degli uomini, un senso di sconfitta continua che lo conduce – nonostante tutto – ad una lucidità di pensiero impressionante. In un dialogo con l’anziano suocero che lo è venuto a trovare in carcere, e che lo spinge a pregare, Yakov sbotta ed esclama ad alta voce: «La natura ha inventato se stessa e ha inventato anche l’uomo. Qualunque cosa ci fosse nella natura, c’era fin dal principio. L’ha detto Spinoza. Sembra impossibile, ma dev’essere vero. Quando si viene ai fatti, o Dio è una nostra invenzione e non ci può fare niente, o è una forza della Natura ma non della storia. Una forza non è un padre. È un vento gelato: prova a scaldartici. A dir la verità, per me Dio è un fallimento completo e ci ho messo una pietra sopra» (p. 317).

Yakov sembra sconfitto, oramai in balìa di un fiume incontrollabile. Ma sotto questo velo oscuro rimane un barlume della potenza della mente, della capacità di conoscere gli affetti, e quindi in parte di controllarli. Anche nella pagine finali (che qui non descrivo per non rovinare la sorpresa a chi volesse leggere questo stupendo libro) Yakov si muove con un atteggiamento che Spinoza avrebbe sottoscritto. Non sappiamo se, in verità, l’uomo che subì questo processo avesse con lui testi di Spinoza; di certo Malamud non poteva che raffigurare Yakov con quei testi sottobraccio e nella mente. Il tuttofare è un uomo che non maledice mai il destino: piuttosto maledice se stesso e la cattiveria degli uomini. Egli non pensa mai alla morte, come ammoniva Spinoza, e nel breve periodo di libertà a Kiev – sotto falso nome e presentandosi come un goy – Yakov è un uomo misurato, onesto ma mai remissivo. Yakov è la vittima per eccellenza, e in una storia a metà fra la realtà e l’invenzione, L’uomo di Kiev è di certo un romanzo pieno di filosofia, anche quando non si cita Spinoza, che ribadisce ancora una volta il detto antico di questa disciplina: il pensiero e la vita non possono che andare insieme, indissolubili.

Malamud, Bernard. 2014. L’uomo di Kiev. Roma: Minimum Fax (nella traduzione di Ida Omboni e prefazione di Alessandro Piperno).

Questo articolo è stato pubblicato una prima volta su Ritiri Filosofici l’11 ottobre 2015.

Photo by Ye Jinghan on Unsplash

Saverio Mariani è nato a Spoleto (PG) nel 1990, dove vive e lavora. È laureato in filosofia, lavora nel mondo della comunicazione e della formazione. Redattore di questa rivista, ha pubblicato il saggio filosofico Bergson oltre Bergson (ETS, Pisa, 2018). Il suo blog sito è: attaccatoeminuscolo.it

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