L’ombrellone

L’ombrellone

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Pur meno noto rispetto ai grandi classici del cinema di Dino Risi, L’ombrellone è uno degli apici della commedia all’italiana: Enrico Maria Salerno, nel ruolo dell’ingegnere Enrico Marletti che raggiunge la moglie a Riccione per Ferragosto, è la rappresentazione plastica di una borghesia appena nata e già in crisi. Assolutamente da riscoprire.

Il ponte

Enrico Marletti è un ingegnere quarantenne. A ridosso di Ferragosto lascia finalmente Roma per raggiungere, alla guida della sua macchina, la moglie che da tre settimane è al mare a Riccione. Nel corso di un paio di giorni conoscerà molte persone e cercherà di comprendere l’inquietudine coniugale della consorte. [sinossi]
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Fa un certo effetto tornare con gli occhi e la mente a L’ombrellone, film dimenticato dai più e che andrebbe doverosamente riscoperto, non solo per il ruolo che svolge all’interno della filmografia di Dino Risi ma anche e soprattutto per la sua capacità di raggelare il Tempo in cui è stato prodotto, tracciando le traiettorie di uno sguardo sarcastico e doloroso sulla nuova borghesia italiana, quella sorta dal boom economico. Fa un certo effetto vedere le spiagge della riviera romagnola stracolme di persone, senza neanche un granello di sabbia a dividere un telo da mare dall’altro: gli ombrelloni si toccano, al punto che dalle inquadrature dall’alto appaiono come la riproduzione industriale degli alberi della foresta che proteggono la terra dall’arsura del sole. E non meno selvaggia della fauna belluina è quella macchia umana che ciarla tra le sdraio, si ammassa nell’acqua dell’Adriatico, infesta un territorio naturale riproducendovi tutte le censure, e le libertà sotterranee, della società italiana (e non solo) dell’epoca. Fa un certo effetto tornare con gli occhi e la mente a L’ombrellone perché l’immagine di quel mondo contrasta come non mai con l’oggi. E non solo per la pandemia che impedirà, anche qualora dovesse ripartire il turismo, assembramenti come quelli descritti in precedenza, ma anche perché quella presenza umana si è anno dopo anno desertificata: potere del crollo dell’economia, e di una società occidentale in crisi ben prima dell’incedere del Covid-19. Crisi di valori, senza dubbio, ma soprattutto crisi monetaria. Non c’è più, nell’Italia dell’ultimo trentennio, la capacità d’acquisto di coloro che nel 1965 passavano l’estate a Riccione, o in Toscana, o in qualunque altra località marittima. Allo stesso modo non c’è una Roma vuota come quella che attraversa l’ingegnere quarantenne Enrico Marletti in viaggio sulla sua automobile per raggiungere la Romagna e ricongiungersi alla consorte, lì già da alcune settimane. Roma priva di vita, un viaggio in macchina a Ferragosto… Ricorda qualcosa? Se L’ombrellone, ed è evidente, deve molto alla memoria de Il sorpasso – una memoria all’epoca recente, solo tre anni dividono i due film – allo stesso tempo compie un passo più in là, permettendosi una digressione non più articolata, ma addirittura più ferale.

Il viaggio sull’Aurelia di Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant rappresentava la perdita d’innocenza di una nazione che sul mito della velocità cercava di riscoprire la propria modernità perduta (e non rintracciata nella vera rivoluzione moderna, il neorealismo); tre anni dopo perfino quell’epifania in movimento mostrava il volto di un’utopia irrealizzabile. Non c’è neanche più bisogno della morte, sprofondo nell’abisso della mejo gioventù triturata dall’ingranaggio del Capitale, perché lo sfacelo è ovunque. È nell’ingorgo autostradale, in quei corpi sudati, oleosi, desiderosi di un’evasione dalla placidità borghese che allo stesso tempo è l’unica illusione che permette loro quello stile di vita. Di tutte le commedie amare di cui è disseminata la produzione italiana a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, poche sono quelle che hanno il coraggio di mettere alla berlina la nazione con cotanta virulenza. Non si tratta solo di una pochade su un uomo in carriera che deve affrontare tre giorni folli nel carnaio estivo durante i quali risolvere – tra le altre cose – la propria crisi coniugale. E non è neanche solo una riflessione sul costume di un’epoca. Tra il 1962 de Il sorpasso e il 1965 Risi ha diretto altri quattro lungometraggi, più due cortometraggi per film a episodi (Le bambole e I complessi) e gran parte della messa in scena de Il successo, per cui è accreditato alla regia il solo sfortunato Mauro Morassi. Nel cuore dello sviluppo industriale, tanto del Paese quanto della cinematografia nazionale, Risi prende di petto uno dei sottogeneri più identificativi della commedia – il film vacanziero, da sempre e per sempre cartina di tornasole della boutade italica – e senza smentirne cliché o luoghi comuni ne sottolinea il contrappasso necrofilo. Quasi stesse orchestrando più una marcia funebre che una quadriglia, Risi filma quest’estate impaziente, vacuamente febbrile. Il suo è un allegro non troppo, uno scandaglio umano che non nutre speranza nelle magnifiche sorti e progressive di una nazione che ha ingurgitato il boom economico senza capirne granché, un po’ come accade con i pezzi d’antiquariato che il conte Antonio Bellanca (un surrettizio Lelio Luttazzi, anche responsabile della colonna sonora originale) bandisce alle aste cui partecipano arricchiti, nobili, nuovi borghesi. Tutti irrimediabilmente allocchi, a partire dall’intristita Giuliana, la moglie dell’ingegnere che si sente abbandonata – non senza ragione – e potrebbe forse lasciarsi andare a un amore vacanziero, se solo non fosse davvero borghese.

Il rito della borghesia, inteso come universo benpensante, e dunque (auto)censorio anche quando pretenderebbe di mostrarsi al suo opposto, è presente ne L’ombrellone in tutta la sua forza, in tutta la sua essenza, e viene messo alla berlina. Per aprire gli occhi sulla situazione, sembra suggerire Risi, basta cambiare prospettiva: ecco dunque sopraggiungere la splendida sequenza che vede l’ingegnere lasciare Riccione per seguire in collina il gigolò Sergio, che crede stia puntando la sua Giuliana. Lì sulla strada che porta a Gabicce Monte, un tiro di schioppo da Riccione eppure già in terra marchigiana, si sviluppa la sequenza cardine dell’intero film: alla “giusta distanza” si toglie il velo su un mondo annoiato, mediocre, che a neanche dieci anni di distanza dalla Legge Merlin vede ancora la prostituzione (maschile, in questo caso) come elemento primario per “incentivare il turismo”. Il resto, compreso il lusso sfrenato del panfilo su cui si può passare una serata, è pura paccottiglia d’occasione. Come già sottolineava ne Il sorpasso, Risi torna a raccontare un’Italia che si crede emancipata ma non si rende conto che è stata solo inghiottita e digerita da un organismo molto più complesso e feroce: il capitalismo. Dominato da tutte le canzoni in voga per sollazzare le vacanze degli italiani – da Il mondo di Jimmy Fontana a Rimpiangerai di Gino Paoli, passando per Viva la pappa col pomodoro di Rita Pavone: la colonna sonora come sottofondo incessante e ottundente anticipa l’utilizzo che ne farà solo otto anni più tardi George Lucas in American Graffiti – e impreziosito dall’interpretazione sorniona e a suo modo sommessa di Enrico Maria Salerno (ma tutto il cast è da incorniciare, a partire da una strepitosa Sandra Milo), L’ombrellone è un film dimenticato ma a suo mondo fondamentale, rappresentazione plastica di una borghesia appena nata e già in crisi. Assolutamente da riscoprire.

Info
L’incipit de L’ombrellone.

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