L’istruttoria è chiusa: dimentichi

L’istruttoria è chiusa: dimentichi

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Atto d’accusa contro le mille storture dell’istituzione carceraria italiana, L’istruttoria è chiusa: dimentichi di Damiano Damiani prosegue la polemica civile connaturata a molto del cinema dell’autore friulano spostando parallelamente il focus verso una disamina della fragile consistenza etica della mentalità borghese. Meno convincente che altrove, ma sempre robustamente professionale nella confezione. Protagonista (ça va sans dire) Franco Nero.

Un drink, un party, uno yacht, e passa la paura

Ingiustamente accusato per omicidio colposo a seguito di un incidente d’auto con omissione di soccorso, il brillante architetto Vanzi finisce in carcere. Da subito si scontra con una durissima realtà a lui del tutto aliena, vessato da brutali compagni di cella e messo al centro di una miriade di ricatti. Forte però della sua posizione sociale, Vanzi viene tributato a poco a poco di interessati privilegi sia da parte di untuosi carcerati di lusso, sia da parte delle figure istituzionali del carcere. Tra i detenuti spicca Pesenti, finito pretestuosamente in prigione per aver aggredito un ingegnere e deciso a testimoniare in un importante processo che si aprirà di lì a poco per il disastro di una diga che ha provocato migliaia di morti… [sinossi]

Dando conto dei mille mali della sua Italia coeva, minata da tare culturali praticamente universali e sempiterne, Damiano Damiani conduce in realtà anche un’altra disamina che sale ancor più in evidenza in L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971). Girato a stretto giro dopo Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), con ancora Franco Nero protagonista, il film si muove sulle orme di un romanzo di Leros Pittoni, Tante sbarre, per delinearsi come arrembante atto di denuncia contro l’istituto carcerario italiano, mettendone in luce la sua natura del tutto deviata rispetto agli scopi ai quali è finalizzato. Di fatto, però, il focus più interessante del film, coerente anche con buona parte dei film di Damiani, risiede in una robusta accusa alla mentalità borghese. Di frequente i protagonisti del cinema di Damiani non sono stinchi di santo tutti d’un pezzo: la paura, la fragilità umana s’incarnano spesso in protagonisti sofferti, presi in mezzo a ingranaggi più grandi di loro ai quali cercano di sopravvivere piegandosi a poco a poco al compromesso, pur tentati (ma mai a sufficienza) dalla via dell’idealismo e dei buoni principi. Il borghesissimo Vanzi di Franco Nero, che in L’istruttoria è chiusa: dimentichi finisce in carcere per una pretestuosa detenzione preventiva, non fa eccezione. Comprensibilmente spaventato da una realtà feroce e decisamente aliena ai salotti cool che è abituato a frequentare, sulle prime Vanzi cerca di conservare intatti i propri fieri principi, scendendo in seguito per passi progressivi la scala del compromesso, dei favori comprati grazie alle ottime risorse finanziarie di cui dispone. A ogni favore accettato Vanzi si sporca un po’ di più. A ogni lusinga di un potere in cui Stato, criminalità e difensori dell’ordine si infanghigliano quotidianamente e reciprocamente, Vanzi fa un passo in avanti verso l’inserimento in quel medesimo sistema di potere. Chi ha i soldi, chi è architetto è visto di buon occhio anche in carcere, può tornare comodo per mille ragioni. Per cui il concetto di favore personale si allarga un po’ a tutto, compreso il rifornimento di favori sessuali femminili tanto agognati in un contesto di totale astinenza dove a lenire il disagio può intervenire solo la cosiddetta «omosessualità condizionata». Fuori dal carcere, poi, per lavarsi la coscienza è sufficiente scrivere un bel pamphlet d’accusa contro l’istituto carcerario, pronto per lanci scandalistici e per platee ben pettinate di salottieri che vanno in crociera con lo yacht e che snobisticamente vedono la galera come un’esperienza diversa e a suo modo interessante. A fianco dell’istituzione carceraria, insomma, in L’istruttoria è chiusa: dimentichi finisce sul banco degli imputati anche tutto un sistema valoriale intimamente basato sullo scambio, la minaccia, il ricatto e, sopra ogni cosa, sulla paura. Io ho paura, dirà il brigadiere Graziano sei anni dopo nel film omonimo. Le paure di Vanzi sono le stesse, così come il medesimo Graziano non è del tutto esente da proprie responsabilità per il destino che lo attende. La paura è resa nel cinema di Damiani sempre con un approccio binario, tanto umana e comprensibile, specie in un contesto così poco rassicurante come l’Italia del tempo, quanto in fin dei conti complice di uno smacco generalizzato. Vanzi alla fine l’ha vinta. Esce dal carcere dopo aver compiuto a sua volta una discreta serie di deprecabili misfatti. L’ha vinta, ma ha perso se stesso.

Questione di lunga data, quella delle carceri italiane: ben in linea con lo spirito di un Paese che storicamente rinuncia con grande fatica a sussulti giustizialisti, per anni il carcere italiano si è tenuto fieramente lontano dall’idea della detenzione come premessa al reinserimento sociale, conferendo all’idea della pena uno statuto pressoché autoreferenziale. Complici gli storici disagi di strutture vecchie, piccole e fatiscenti, la detenzione si è allargata per anni a una condizione eterna e inevitabile fuori e dentro dalle prigioni. All’interno, anzi, non si assiste altro che a un inasprimento feroce di dinamiche interpersonali, cosicché chi entra da criminale ne esce criminale al quadrato. Di più: il carcere raccontato da Damiani porta con sé un tratto tutto nostro, tutto tristemente nazionale, quello della mescolanza dei ruoli, degli strusci, degli ammanicamenti, al di qua e al di là della barricata della giustizia. L’approccio narrativo di L’istruttoria è chiusa: dimentichi è fedelmente damianiano. Robusto, didascalico, pronto a raccogliere una selva di luoghi comuni popolari e ad amplificarli. In tale amplificazione, come succede anche in altre opere di Damiani, si giunge consapevolmente anche all’eccesso grottesco. È forse il versante meno convincente di L’istruttoria è chiusa: dimentichi, che a distanza di anni finisce per allontanare l’empatia dello spettatore. Il coro di macchiette e di mostri fisiognomici, rintracciati sia tra i detenuti sia tra i difensori delle istituzioni, rischia spesso di buttare tutto in burletta, con netto rifiuto dello scavo psicologico in favore del popolarissimo tratto forte. Ne risente anche lo sviluppo del Vanzi protagonista, piuttosto rigido nella sua evoluzione, affidato a un Franco Nero un po’ monocorde nei suoi sconvolti stupori. Al contempo, però, L’istruttoria è chiusa: dimentichi presenta anche qualche evidente scarto rispetto al serratissimo cinema di Damiani, così attento a coniugare impegno e intrattenimento. Qui si sceglie infatti il passo lento, meditato, a differenza dell’intrigo serrato già ravvisabile in Il giorno della civetta (1968) o Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica. La suspense è centellinata, la ragnatela dei rapporti di forza interni al carcere è costruita senza fretta. Talvolta, sorge pure il sospetto che tale allentamento narrativo sia dovuto anche a una minore ispirazione dell’autore. Tutta la prima parte è infatti occupata da un quadretto di maniera decisamente poco coinvolgente, che soltanto con l’entrata nel racconto del personaggio di Riccardo Cucciolla (eccessivamente ritardata) subisce un robusto scossone. Come puntualmente accade nel cinema di Damiani, anche qui ritroviamo un cenno diretto alla cronaca, rimaneggiato e manipolato a fini narrativi. Stavolta tocca al disastro del Vajont, rievocato nel supertestimone Cucciolla che in molti hanno interesse a eliminare. Probabilmente Damiani intende anche alludere al suicidio di Mario Pancini, intervenendo però robustamente sulla verità dei fatti e traslando la vicenda in un omicidio carcerario camuffato da suicidio – nella realtà, Pancini si suicidò di sua volontà, e non in carcere, senza lasciare troppe ombre sulla propria morte. Si tratta di un meccanismo frequente nel cinema di Damiani, fonte di qualche attacco da parte della critica. L’aggancio diretto alla cronaca è un tratto ricorrente, ma quasi mai evocato per fare opera di documentazione. Convinto (con qualche buona ragione) che l’Italia sia un pozzo senza fondo di misteri e poteri occulti, Damiani sfrutta spesso l’appeal della cronaca per inscrivere poi il labile riferimento in un racconto discretamente distante dalla realtà dei fatti. È un’operazione scaltramente popolare, che spesso rischia però di annebbiare le finalità del proprio racconto collocandosi in un territorio ambiguo tra realtà e finzione. È anche, però, una delle probabili ragioni del grande successo che il suo cinema ha riscosso presso il pubblico in quegli anni.

In ultima analisi, sembra comunque che il Damiani anni Settanta, lontano dal conclamato mafia-movie, dalla Sicilia e da più generali trame oscure, perda un po’ del suo collaudatissimo smalto. L’istruttoria è chiusa: dimentichi è un film solido, scopertamente popolare, che si lascia vedere senza suscitare però viscerale partecipazione. A smorzare l’efficacia dell’insieme intervengono pure i divertiti cameo dello stesso Damiani nei panni dell’avvocato del protagonista, che scherza con Franco Nero conducendo imprevedibilmente il discorso verso una specie di gioco tra amici – il rapporto avvocato/assistito sembra rispecchiare il rapporto regista/attore, come se Damiani dicesse sogghignando a uno dei suoi attori feticcio «Franco, stavolta ti ho buttato in carcere, vedi che puoi fare». Nella folta filmografia dell’autore friulano è sicuramente un film meno riuscito di altri, privo di un reale sviluppo drammaturgico, affidato a un andamento distrattamente episodico e a un pessimismo a priori talmente precostituito da dissolvere a poco a poco l’interesse dello spettatore in una quieta prevedibilità. E stavolta, ribadiamo, il grottesco non aiuta. Nell’attacco ai poteri istituzionali la sferzata del ghigno mostruoso è uno strumento privilegiato, ma Damiani adotta una versione decisamente conciliante di macchietta, quasi più da stilema di commedia all’italiana che da polemica civile, rendendo difficilmente ricevibile anche una sequela di detenuti uno più ridicolo dell’altro – si pensi allo psicopatico di John Steiner, all’anziano gay vezzoso che passa le sue giornate a fare figurine ritagliate nella carta, e a un più generale utilizzo di dialettalismi di ogni fatta in ottica nazionalpopolare. Resta, questo sì, l’ottima prova di Turi Ferro nei panni di un direttore delle guardie carcerarie, crudele, cinico, strumento di un Potere al quale però si asservisce con atto di resa nei confronti di un sistema che lui per primo sa essere marcio e immodificabile. Intanto, però, davanti alle tante paure di Vanzi, viene voglia di rivedere Io ho paura. Lì sì, che c’è davvero da aver paura.

Info
L’istruttoria è chiusa: dimentichi integrale su Youtube.

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